lunedì 30 gennaio 2017

Il rapporto tra giurisprudenza e psicologia
nella tutela del minore


    Nel momento in cui le istituzioni iniziano ad occuparsi della tutela del minore che si trova coinvolto in una situazione familiare problematica, incompatibile con l’ipotesi di un suo sereno e normale sviluppo, le tre sfere di competenza chiamate in causa sono quelle giuridica, sociale e psicologica.
     Anche se la necessità di un loro simultaneo intervento appare oltremodo evidente, a volte sembra non altrettanto evidente che: primo, tali sfere di competenza possono interfacciarsi in diversi modi, secondo, i diversi modi di interfacciarsi sortiscono necessariamente risultati diversi, terzo, è necessario che si interfaccino in modo ottimale, tale cioè da permettere – per quanto possibile – il ripristino delle condizioni favorevoli al normale e sereno sviluppo del minore stesso.
    Questo terzo punto solleva una questione che potremmo definire filosofica, se cioè è più opportuno contemplare la psicologia con gli occhi della giurisprudenza o piuttosto la giurisprudenza con gli occhi della psicologia.
   Per rispondere a tale quesito occorre prima di tutto la corretta definizione degli obiettivi istituzionali e quindi dei criteri che guidano l’intervento da parte delle istituzioni.
    Ogni processo andato a buon fine ha come presupposto la definizione di una priorità o sequenza di azioni: ad esempio nel preparare una torta si può prima mettere farina, latte e burro in forno poi impastarli, oppure procedere nel modo opposto.
    Se il criterio guida e l’obiettivo delle istituzioni sono posti – come certamente dovrebbero – al servizio dei bisogni del minore, in particolare della ripresa del suo sereno e normale sviluppo, occorre che la giurisprudenza sia vista attraverso gli occhi della psicologia e non viceversa.
    Le conoscenze teoriche e operative necessarie a realizzare tale obiettivo sono, infatti, radicate nella psicologia, nelle diverse quanto consolidate teorie sullo sviluppo infantile piuttosto che nella materia giuridica: pensare altrimenti sarebbe come usare la cartina di Milano per orientarsi a Roma o viceversa.
    Stando però ad una consolidata prassi di intervento, quando le istituzioni approcciano la famiglia problematica all’interno della quale si trova un minore che si suppone in difficoltà, le figure appartenenti alla sfera psicologica (quali psicologo, psicoterapeuta, psichiatra e neuropsichiatra infantile), sono relegate ad un ruolo valutativo, come nel caso in cui il giudice disponga la CTU in vista e in funzione del suo futuro provvedimento.
     A questo punto sono d’obbligo due considerazioni, la prima riguarda la natura dell’intervento che viene posto in atto, la seconda i tempi che tale intervento necessita per essere attuato.
   Per quanto riguarda la prima considerazione, ragionando secondo gli schemi concettuali della giurisprudenza si finisce per porsi la domanda “Che cos’è giusto?”.
   Che si tratti – almeno in questo ambito – della domanda sbagliata è dimostrato dal fatto che, di regola, i provvedimenti del giudice rappresentano interventi a gamba tesa sul rapporto tra i genitori, interventi che manifestano effetti peggiorativi nei confronti di tale rapporto: nessuno potrebbe negare che il tribunale sia, infatti, il luogo in cui le relazioni appaiono per definizione le più conflittuali.
    Ciò va inevitabilmente ad influire in modo altrettanto peggiorativo sul rapporto genitore-figlio, privilegiando solitamente un genitore e riducendo ai minimi termini il rapporto tra l’altro genitore e il figlio, in totale dispregio del principio della bigenitorialità.
   Se consideriamo che il bisogno del bambino è vivere all’interno di una famiglia in armonia, possiamo renderci conto che l’azione giuridica tout court rischia di produrre l’effetto paradosso, finendo cioè per peggiorare la condizione dello stesso minore all’interno della famiglia o perlomeno sullo sfondo del rapporto con i genitori.
    Il punto è che è proprio la relazione tra i genitori il contenitore dello sviluppo del minore: se la qualità di quel contenitore peggiora sarà lui a farne direttamente le spese.
    Tralasciando per un momento il diritto dei genitori – che nel quadro generale non risulta certo una questione di marginale importanza – per considerare ora soltanto i bisogni del figlio, il deterioramento della situazione relazionale (che può declinarsi secondo una limitata serie di possibilità) tra di loro non può che ripercuotersi in modo altrettanto deteriore sul figlio.
   Cercare di raddrizzare le cose sul piano dei rapporti interpersonali all’interno della famiglia attraverso i provvedimenti del giudice sarebbe come cercare di uscire dalle sabbie mobili dimenandosi: più lo si fa nel tentativo di uscire più si finisce, paradossalmente, per sprofondare.
    Operando un radicale cambiamento di prospettiva, ossia contemplando la giurisprudenza con gli occhi della psicologia si giunge alla conclusione che la prima dovrebbe fornire alla seconda i mezzi per intervenire sul sistema familiare al fine di risanare, in tutto o in parte, la relazione tra i genitori e quella tra i genitori e il figlio, proprio per il fatto che di questo il minore ha bisogno.
   In accordo con tale prospettiva, sostituendo alla domanda “cos’è giusto?” quella che intende indagare su “ciò che è utile” dobbiamo necessariamente giungere alla conclusione che la famiglia disfunzionale necessita di un intervento sulla comunicazione-relazione, ciò di cui ogni essere umano come animale sociale ha bisogno nel momento in cui incontra problemi nel proprio ambiente sociale, il che si rivela particolarmente vero nel caso del minore.
    Il ruolo di regista proprio della giustizia e del giudice potrebbe essere svolto indirizzando l’intero intervento istituzionale in una direzione diversa, volta alla soluzione radicale del problema familiare al fine di scongiurare il suo peggioramento (come spesso accade); nel momento in cui non si riscontrasse compliance da parte dei genitori potrebbe esservi, inoltre, una precisa prescrizione in tal senso.
    Nel caso di rifiuto a lavorare per migliorare le cose, anche se si può portare il cavallo all’acqua ma non si può costringerlo a bere, l’esperienza clinica insegna che con gli strumenti adeguati (vedi ad esempio la “comunicazione strategica”) in ogni situazione esiste un certo margine di miglioramento.
    Si tratterebbe comunque di una minoranza di casi, considerando anche il fatto che – come ultima ratio e nel caso di comportamenti che compromettono gravemente e ripetutamente l’integrità psichica e fisica del minore – si potrebbe usare la leva motivazionale costituita dall’ipotesi di provvedimenti estremi (come il temporaneo ricollocamento del minore in ambito extrafamiliare).
  Se consideriamo i problemi familiari e relazionali in genere come una particolare forma di manifestazione sintomatica (accanto a quelle psichiche e somatiche) troviamo ulteriore sostegno alla precedente ristrutturazione di prospettiva: se qualcuno si rompesse una gamba a nessuno verrebbe in mente di portarlo davanti al giudice quanto piuttosto al pronto soccorso!
   Per quanto riguarda la seconda questione precedentemente sollevata, riguardante cioè i tempi dell’intervento disposto dal giudice e dello stesso provvedimento, a volte poco importa che questi disponga l’attuazione di misure atte a ripristinare le condizioni necessarie a favorire il normale e sereno sviluppo del minore, quali il sostegno alla genitorialità, così come suggerire un eventuale percorso di psicoterapia ai genitori (qualora la CTU abbia fornito indicazioni in tal senso): il problema appare questa volta costituito dai tempi della giustizia.
    Il relegare, in prima battuta, l’intervento ad opera delle figure appartenenti all’ambito psicologico ad un ruolo puramente valutativo determina spesso un cospicuo ritardo nell’adozione di misure volte alla normalizzazione della situazione familiare a vantaggio dello stesso minore.
    Questi deve così attendere i tempi che oggi sono propri della giustizia (e i tribunali minorili non rappresentano certo eccezioni a questa regola), situazione che non tiene conto del fatto che la natura non ha previsto una pausa o una sorta di letargo evolutivo in attesa di un momento più opportuno per riprendere lo sviluppo una volta superata la situazione familiare disagevole.
    Nel guardare la situazione familiare prioritariamente con gli occhi della giustizia piuttosto che della psicologia non si prende in debita considerazione il fatto che per il soggetto in età evolutiva la dimensione tempo non ha lo stesso valore che ha per l’adulto, il che accade per diversi motivi.
   Primo, la percezione soggettiva del flusso temporale è diversa, in modo tale che lo stato di coscienza temporale in cui si trova il bambino agisce come un lente di ingrandimento focalizzata sul qui ed ora: se questo appare caratterizzato da sofferenza sarà questa ad essere amplificata.
Per un bambino, un giorno può rappresentare un lasso temporale incredibilmente lungo, specie se denso di esperienze spiacevoli, mentre per noi adulti spesso dura quanto un frullo d’ali.
   Il problema del passare del tempo in rapporto ai bisogni del bambino emerse con grande evidenza dal lavoro di ricerca compito da René Spitz e John Bowlby, due studiosi di chiara fama che nel secolo scorso furono chiamati a indagare sulle cause dell’alto tasso di mortalità e di morbilità dei bambini ospiti degli orfanatrofi e in attesa di adozione e i loro studi portarono alla scoperta delle conseguenze della mancanza di accudimento.
  In particolare Spitz parlò di “deprivazione di contatto” o “deprivazione affettiva”, le cui conseguenze sono devastanti dal punto di vista psicologico, neurologico e somatico (vedi il crollo della soglia della risposta immunitaria), in grado di produrre la sindrome chiamata “depressione anaclitica” o “marasma”, che rende più probabile il rischio di morte o di grave malattia.
   Bowlby sviluppò invece la “teoria dell’attaccamento”, che ancor oggi appare fondamentale per comprendere l’importanza che la presenza delle figure di accudimento (caregivers) ha sullo sviluppo del bambino.
   Anche se le situazioni che affliggono oggi il minore nella maggior parte dei casi di disfunzione del sistema familiare differiscono vistosamente da quelle che caratterizzarono gli orfanatrofi nei primi decessi del secolo scorso, il principio è il medesimo: il bambino ha bisogno dei genitori, di entrambi i genitori.
  Tornando per un momento alla questione precedente, se questi non si rivelano adatti per qualsivoglia motivo occorre prima di tutto cercare di recuperarne la funzione genitoriali, adottando gli opportuni quanto efficaci provvedimenti.
   Soprattutto nei casi in cui il bambino viene sottratto ai genitori o anche ad un genitore senza che sia stato fatto alcun significativo tentativo di ristabilire condizioni familiari e relazionali più favorevoli, è come se un medico decidesse di amputare un arto al paziente che lamenta dolori senza aver prima somministrato alcun farmaco o, alla peggio, senza aver compiuto alcun esame clinico per accertare le cause degli stessi dolori.
   Altra considerazione da fare per quanto concerne il tempo dal punto di vista del bambino è che l’impatto delle esperienze relazionali è diverso rispetto all’adulto, rivelandosi di valore strutturante nei confronti della personalità in divenire.
   Dobbiamo a questo proposito tener presente che nei primi tre-cinque anni di vita viene scritta quella che, in termini teatrali, possiamo chiamare la “sceneggiatura” della vita, che tenderà ad essere rappresentata e replicata fino al termine della vita con intensità tanto maggiore quanto più si rivela conflittuale e quindi fonte di sofferenza (vedi il costrutto di “coazione a ripetere” in Freud).
   I primi anni si rivelano perciò determinanti non solo per il buono o cattivo procedere dello sviluppo successivo ma anche per il resto dell’esistenza (come dimostra il lavoro clinico nell’adulto): nei casi in cui le esperienze soprattutto relazionali primarie non si rivelino favorevoli alla soddisfazione dei bisogni del bambino finiscono per costituire una sorta di coltura batterica capace di indurre, con il passare del tempo, ogni possibile forma di patologia.
  Considerando che il bambino vive in una dimensione temporale diversa da quella dell’adulto dobbiamo concludere che non ha tempo di attendere i tempi della giustizia!
   Una giustizia minorile che prescinde da tali elementari quanto fondamentali considerazioni fa davvero l’interesse del minore e se non lo fa quanto può considerarsi tale?
   È soprattutto in questo contesto che occorre operare una netta distinzione tra le buone intenzioni sottese agli interventi e gli effetti che questi effettivamente producono sul minore: come affermava Oscar Wilde, è spesso con le migliori intenzioni che si producono i peggiori risultati!
   Concludendo, nel momento in cui l’obiettivo delle istituzioni preposte alla tutela del minore è il ripristino delle condizioni favorevoli al suo sereno e normale sviluppo, occorre che la giurisprudenza sia vista attraverso gli occhi della psicologia, in particolare di quelle sue parti che si occupano dei bisogni del minore e degli strumenti atti a ripristinare un assetto relazionale funzionale a tale sviluppo.
  Occorre, a mio avviso, l’istituzione di una figura che operi in prima linea sul piano della comunicazione-relazione, utilizzando gli strumenti oggi a disposizione e messi a punto sulla base delle ricerca compiute negli ultimi decessi del secolo scorso soprattutto nel mondo anglosassone.
   Per citare solo alcuni modelli ed approcci possibili vedi la terapia sistemico-relazionale impostata da Gregory Bateson, la terapia familiare partecipativa di Salvador Minuchin e quella intergenerazionale di Murray Bowen, la terapia centrata sul cliente di Carl Rogers, la programmazione neurolinguistica di Richard Bandler e John Grinder, l’analisi transazionale di Eric Berne, la terapia breve strategica di Paul Watzlawick e Giorgio Nardone, la terapia dei nuclei profondi di Stefano Boschi.
Stefano Boschi


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