Il rapporto tra
giurisprudenza e psicologia
nella tutela del minore
Nel momento in cui le
istituzioni iniziano ad occuparsi della tutela del minore che si trova
coinvolto in una situazione familiare problematica, incompatibile con l’ipotesi
di un suo sereno e normale sviluppo, le tre sfere di competenza chiamate
in causa sono quelle giuridica, sociale e psicologica.
Anche se la necessità
di un loro simultaneo intervento appare oltremodo evidente, a volte sembra non
altrettanto evidente che: primo, tali sfere di competenza possono
interfacciarsi in diversi modi, secondo, i diversi modi di interfacciarsi
sortiscono necessariamente risultati diversi, terzo, è necessario che si
interfaccino in modo ottimale, tale cioè da permettere – per quanto possibile –
il ripristino delle condizioni favorevoli al normale e sereno sviluppo del
minore stesso.
Questo terzo punto
solleva una questione che potremmo definire filosofica, se cioè è più opportuno
contemplare la psicologia con gli occhi della giurisprudenza o piuttosto la
giurisprudenza con gli occhi della psicologia.
Per rispondere a tale
quesito occorre prima di tutto la corretta definizione degli obiettivi
istituzionali e quindi dei criteri che guidano l’intervento da parte delle
istituzioni.
Ogni processo andato a
buon fine ha come presupposto la definizione di una priorità o sequenza di
azioni: ad esempio nel preparare una torta si può prima mettere farina, latte e
burro in forno poi impastarli, oppure procedere nel modo opposto.
Se il criterio guida e
l’obiettivo delle istituzioni sono posti – come certamente dovrebbero – al servizio
dei bisogni del minore, in particolare della ripresa del suo sereno e normale
sviluppo, occorre che la giurisprudenza sia vista attraverso gli occhi della
psicologia e non viceversa.
Le conoscenze teoriche
e operative necessarie a realizzare tale obiettivo sono, infatti, radicate
nella psicologia, nelle diverse quanto consolidate teorie sullo sviluppo
infantile piuttosto che nella materia giuridica: pensare altrimenti sarebbe
come usare la cartina di Milano per orientarsi a Roma o viceversa.
Stando però ad una
consolidata prassi di intervento, quando le istituzioni approcciano la famiglia
problematica all’interno della quale si trova un minore che si suppone in
difficoltà, le figure appartenenti alla sfera psicologica (quali psicologo,
psicoterapeuta, psichiatra e neuropsichiatra infantile), sono relegate ad un
ruolo valutativo, come nel caso in cui il giudice disponga la CTU in vista e in
funzione del suo futuro provvedimento.
A questo punto sono
d’obbligo due considerazioni, la prima riguarda la natura dell’intervento che
viene posto in atto, la seconda i tempi che tale intervento necessita per
essere attuato.
Per quanto riguarda la
prima considerazione, ragionando secondo gli schemi concettuali della giurisprudenza
si finisce per porsi la domanda “Che cos’è giusto?”.
Che si tratti – almeno
in questo ambito – della domanda sbagliata è dimostrato dal fatto che, di regola,
i provvedimenti del giudice rappresentano interventi a gamba tesa sul rapporto
tra i genitori, interventi che manifestano effetti peggiorativi nei confronti
di tale rapporto: nessuno potrebbe negare che il tribunale sia, infatti, il
luogo in cui le relazioni appaiono per definizione le più conflittuali.
Ciò va inevitabilmente
ad influire in modo altrettanto peggiorativo sul rapporto genitore-figlio, privilegiando
solitamente un genitore e riducendo ai minimi termini il rapporto tra l’altro
genitore e il figlio, in totale dispregio del principio della bigenitorialità.
Se consideriamo che il
bisogno del bambino è vivere all’interno di una famiglia in armonia, possiamo
renderci conto che l’azione giuridica tout court rischia di produrre
l’effetto paradosso, finendo cioè per peggiorare la condizione dello stesso
minore all’interno della famiglia o perlomeno sullo sfondo del rapporto con i
genitori.
Il punto è che è
proprio la relazione tra i genitori il contenitore dello sviluppo del minore:
se la qualità di quel contenitore peggiora sarà lui a farne direttamente le
spese.
Tralasciando per un
momento il diritto dei genitori – che nel quadro generale non risulta certo una
questione di marginale importanza – per considerare ora soltanto i bisogni del
figlio, il deterioramento della situazione relazionale (che può declinarsi
secondo una limitata serie di possibilità) tra di loro non può che ripercuotersi
in modo altrettanto deteriore sul figlio.
Cercare di raddrizzare
le cose sul piano dei rapporti interpersonali all’interno della famiglia attraverso
i provvedimenti del giudice sarebbe come cercare di uscire dalle sabbie mobili
dimenandosi: più lo si fa nel tentativo di uscire più si finisce,
paradossalmente, per sprofondare.
Operando un radicale
cambiamento di prospettiva, ossia contemplando la giurisprudenza con gli occhi
della psicologia si giunge alla conclusione che la prima dovrebbe fornire alla
seconda i mezzi per intervenire sul sistema familiare al fine di risanare, in
tutto o in parte, la relazione tra i genitori e quella tra i genitori e il
figlio, proprio per il fatto che di questo il minore ha bisogno.
In accordo con tale
prospettiva, sostituendo alla domanda “cos’è giusto?” quella che intende indagare
su “ciò che è utile” dobbiamo necessariamente giungere alla conclusione che la
famiglia disfunzionale necessita di un intervento sulla
comunicazione-relazione, ciò di cui ogni essere umano come animale sociale
ha bisogno nel momento in cui incontra problemi nel proprio ambiente sociale,
il che si rivela particolarmente vero nel caso del minore.
Il ruolo di regista
proprio della giustizia e del giudice potrebbe essere svolto indirizzando
l’intero intervento istituzionale in una direzione diversa, volta alla
soluzione radicale del problema familiare al fine di scongiurare il suo
peggioramento (come spesso accade); nel momento in cui non si riscontrasse
compliance da parte dei genitori potrebbe esservi, inoltre, una precisa
prescrizione in tal senso.
Nel caso di rifiuto a
lavorare per migliorare le cose, anche se si può portare il cavallo all’acqua
ma non si può costringerlo a bere, l’esperienza clinica insegna che con gli
strumenti adeguati (vedi ad esempio la “comunicazione strategica”) in ogni
situazione esiste un certo margine di miglioramento.
Si tratterebbe comunque
di una minoranza di casi, considerando anche il fatto che – come ultima ratio e
nel caso di comportamenti che compromettono gravemente e ripetutamente
l’integrità psichica e fisica del minore – si potrebbe usare la leva
motivazionale costituita dall’ipotesi di provvedimenti estremi (come il
temporaneo ricollocamento del minore in ambito extrafamiliare).
Se
consideriamo i problemi familiari e relazionali in genere come una particolare
forma di manifestazione sintomatica (accanto a quelle psichiche e somatiche)
troviamo ulteriore sostegno alla precedente ristrutturazione di prospettiva: se
qualcuno si rompesse una gamba a nessuno verrebbe in mente di portarlo davanti
al giudice quanto piuttosto al pronto soccorso!
Per quanto riguarda la
seconda questione precedentemente sollevata, riguardante cioè i tempi
dell’intervento disposto dal giudice e dello stesso provvedimento, a volte poco
importa che questi disponga l’attuazione di misure atte a ripristinare le
condizioni necessarie a favorire il normale e sereno sviluppo del minore, quali
il sostegno alla genitorialità, così come suggerire un eventuale percorso di
psicoterapia ai genitori (qualora la CTU abbia fornito indicazioni in tal
senso): il problema appare questa volta costituito dai tempi della
giustizia.
Il relegare, in prima
battuta, l’intervento ad opera delle figure appartenenti all’ambito psicologico
ad un ruolo puramente valutativo determina spesso un cospicuo ritardo
nell’adozione di misure volte alla normalizzazione della situazione familiare a
vantaggio dello stesso minore.
Questi deve così
attendere i tempi che oggi sono propri della giustizia (e i tribunali minorili
non rappresentano certo eccezioni a questa regola), situazione che non tiene
conto del fatto che la natura non ha previsto una pausa o una sorta di letargo
evolutivo in attesa di un momento più opportuno per riprendere lo sviluppo una
volta superata la situazione familiare disagevole.
Nel guardare la
situazione familiare prioritariamente con gli occhi della giustizia piuttosto
che della psicologia non si prende in debita considerazione il fatto che per il
soggetto in età evolutiva la dimensione tempo non ha lo stesso valore che ha
per l’adulto, il che accade per diversi motivi.
Primo, la percezione
soggettiva del flusso temporale è diversa, in modo tale che lo stato di coscienza
temporale in cui si trova il bambino agisce come un lente di ingrandimento
focalizzata sul qui ed ora: se questo appare caratterizzato da sofferenza sarà
questa ad essere amplificata.
Per un bambino, un
giorno può rappresentare un lasso temporale incredibilmente lungo, specie se
denso di esperienze spiacevoli, mentre per noi adulti spesso dura quanto un
frullo d’ali.
Il problema del passare
del tempo in rapporto ai bisogni del bambino emerse con grande evidenza dal
lavoro di ricerca compito da René Spitz e John Bowlby, due studiosi di chiara
fama che nel secolo scorso furono chiamati a indagare sulle cause dell’alto
tasso di mortalità e di morbilità dei bambini ospiti degli orfanatrofi e in
attesa di adozione e i loro studi portarono alla scoperta delle conseguenze
della mancanza di accudimento.
In particolare Spitz
parlò di “deprivazione di contatto” o “deprivazione affettiva”, le cui conseguenze
sono devastanti dal punto di vista psicologico, neurologico e somatico (vedi il
crollo della soglia della risposta immunitaria), in grado di produrre la
sindrome chiamata “depressione anaclitica” o “marasma”, che rende più probabile
il rischio di morte o di grave malattia.
Bowlby sviluppò invece
la “teoria dell’attaccamento”, che ancor oggi appare fondamentale per
comprendere l’importanza che la presenza delle figure di accudimento
(caregivers) ha sullo sviluppo del bambino.
Anche se le situazioni
che affliggono oggi il minore nella maggior parte dei casi di disfunzione del
sistema familiare differiscono vistosamente da quelle che caratterizzarono gli
orfanatrofi nei primi decessi del secolo scorso, il principio è il medesimo: il
bambino ha bisogno dei genitori, di entrambi i genitori.
Tornando per un momento
alla questione precedente, se questi non si rivelano adatti per qualsivoglia
motivo occorre prima di tutto cercare di recuperarne la funzione genitoriali,
adottando gli opportuni quanto efficaci provvedimenti.
Soprattutto nei casi in
cui il bambino viene sottratto ai genitori o anche ad un genitore senza che sia
stato fatto alcun significativo tentativo di ristabilire condizioni familiari e
relazionali più favorevoli, è come se un medico decidesse di amputare un arto
al paziente che lamenta dolori senza aver prima somministrato alcun farmaco o,
alla peggio, senza aver compiuto alcun esame clinico per accertare le cause
degli stessi dolori.
Altra considerazione da
fare per quanto concerne il tempo dal punto di vista del bambino è che
l’impatto delle esperienze relazionali è diverso rispetto all’adulto,
rivelandosi di valore strutturante nei confronti della personalità in divenire.
Dobbiamo a questo
proposito tener presente che nei primi tre-cinque anni di vita viene scritta
quella che, in termini teatrali, possiamo chiamare la “sceneggiatura” della
vita, che tenderà ad essere rappresentata e replicata fino al termine della
vita con intensità tanto maggiore quanto più si rivela conflittuale e quindi
fonte di sofferenza (vedi il costrutto di “coazione a ripetere” in Freud).
I primi anni si
rivelano perciò determinanti non solo per il buono o cattivo procedere dello
sviluppo successivo ma anche per il resto dell’esistenza (come dimostra il
lavoro clinico nell’adulto): nei casi in cui le esperienze soprattutto
relazionali primarie non si rivelino favorevoli alla soddisfazione dei bisogni
del bambino finiscono per costituire una sorta di coltura batterica capace di
indurre, con il passare del tempo, ogni possibile forma di patologia.
Considerando che il
bambino vive in una dimensione temporale diversa da quella dell’adulto dobbiamo
concludere che non ha tempo di attendere i tempi della giustizia!
Una giustizia minorile
che prescinde da tali elementari quanto fondamentali considerazioni fa davvero
l’interesse del minore e se non lo fa quanto può considerarsi tale?
È soprattutto in questo
contesto che occorre operare una netta distinzione tra le buone intenzioni
sottese agli interventi e gli effetti che questi effettivamente producono sul
minore: come affermava Oscar Wilde, è spesso con le migliori intenzioni che
si producono i peggiori risultati!
Concludendo, nel
momento in cui l’obiettivo delle istituzioni preposte alla tutela del minore è
il ripristino delle condizioni favorevoli al suo sereno e normale sviluppo,
occorre che la giurisprudenza sia vista attraverso gli occhi della psicologia,
in particolare di quelle sue parti che si occupano dei bisogni del minore e
degli strumenti atti a ripristinare un assetto relazionale funzionale a tale sviluppo.
Occorre, a mio avviso,
l’istituzione di una figura che operi in prima linea sul piano della comunicazione-relazione,
utilizzando gli strumenti oggi a disposizione e messi a punto sulla base delle
ricerca compiute negli ultimi decessi del secolo scorso soprattutto nel mondo
anglosassone.
Per citare solo alcuni
modelli ed approcci possibili vedi la terapia sistemico-relazionale impostata
da Gregory Bateson, la terapia familiare partecipativa di Salvador Minuchin e
quella intergenerazionale di Murray Bowen, la terapia centrata sul cliente di
Carl Rogers, la programmazione neurolinguistica di Richard Bandler e John
Grinder, l’analisi transazionale di Eric Berne, la terapia breve strategica di
Paul Watzlawick e Giorgio Nardone, la terapia dei nuclei profondi di Stefano
Boschi.
Stefano Boschi
Stefano Boschi
Nessun commento:
Posta un commento