giovedì 27 luglio 2017







Progetto di legge
Massimo Rosselli del Turco - Stefano Boschi – Carlo Priolo
“Modifiche alla legge del 4 Maggio 184/1983 già emendata
dalla legge 28 marzo 149/2001 e dalla legge 28 maggio 173/2015”

Abolizione del Titolo I e Titolo I bis della legge 184/1983 emendata dalla legge 149/2001 e dalla Legge 173/2015

Presentazione

La situazione a cui oggi siamo di fronte in materia di affidamenti è analoga a quella del medico che, di fronte al paziente il quale lamenta un dolore al braccio, ne prescrive l’amputazione senza aver prima tentato altre forme di terapia.
Se in ambito medico non si ragiona né si agisce in questo modo per quale motivo lo si dovrebbe fare nel caso dei disturbi della relazione che caratterizzano la famiglia o il rapporto genitore-figlio disfunzionali?
Di fronte alla disfunzionalità della famiglia il giudice, di regola consigliato dai Servizi sociali e supportato dalle consulenze tecniche, spesso decide di frantumare la famiglia, come se questa fosse una soluzione o, appunto, una terapia.
In ambito istituzionale oggi le problematiche familiari sono trattate, di fatto, come veri e propri reati piuttosto che per quello che sono, ossia forme di patologia della relazione, qualcosa quindi di cui le istituzioni dovrebbero prendersi cura come fa il Sistema Sanitario Nazionale nel caso delle malattie del corpo e dei disturbi della mente.
Sarebbe alquanto strano se una persona traumatizzata o in preda ad una crisi psicotica fosse condotta davanti al giudice piuttosto che all’ospedale!
A rendere ancor più paradossale la situazione attuale va poi annotato il fatto che, anche nei casi in cui non si osservino comportamenti ascrivibili ad un qualche reato, le problematiche familiari sono spesso “sanzionate” come se fossero tali.
Si raggiunge poi il culmine dell’assurdità se pensiamo che i provvedimento vanno nella direzione della “reclusione” del minore all’interno delle comunità di tipo familiare o di accoglienza, che nella realtà dei fatti oltre che della regolamentazione spesso sono istituti all’interno dei quali si attua un vero e proprio “regime carcerario”.
Lo si può tranquillamente affermare nel momento in cui il minore:
·      viene separato dai genitori contro la propria volontà
·      non gli è permesso di uscire né può decidere tornare a casa
·      non può ricevere o effettuare visite o telefonate dai e ai genitori.
A questo punto viene da chiedersi per quale motivo e in base a quali suoi bisogni viene, di fatto, sottoposto ad un trattamento analogo alla detenzione!?
Una paradossale differenza in favore del detenuto è che il periodo di reclusione viene deciso dal giudice al momento della condanna e può essere abbreviato dalla buona condotta, mentre il periodo di permanenza del minore non viene necessariamente definito (anche se al massimo giunge fino a 18 anni).
Dato che le comunità gestiscono un giro di denaro molto consistente, potrebbe essere loro interesse prolungare al massimo il periodo in cui il minore viene ospitato.
Pur essendo private le comunità costituiscono perciò il perno non solo istituzionale ma prima di tutto economico dell’attuale sistema degli affidamenti, che dovrebbe essere preposto alla tutela del minore e del suo sereno sviluppo quando in realtà genera situazioni profondamente traumatiche e difficilmente recuperabili.
Se si cercasse di definire con grande esattezza l’ambito di discrezionalità del giudice in materia di affidamento alle comunità si incapperebbe in un problema difficilmente risolvibile se legato al reato di maltrattamento, nel momento in cui tale reato dovrebbe essere precisato sul piano psicologico.
Ci si troverebbe nella reale impossibilità di descrivere, in modo esaustivo, i casi di reale maltrattamento da tutti gli altri, i casi in cui sarebbe legittimo e realmente indicato ricollocare il minore in comunità in quanto necessario per il suo reale benessere.
Per quanto concerne le comunità di accoglienza per minori si vuole passare fattivamente dal principio della “tutela del minore”, che ha favorito il verificarsi di situazioni devastanti per tanti minori, alla “tutela del sistema relazionale”, che si tratti della famiglia di origine al completo o del rapporto genitore-figlio.
Non si può, infatti, tutelare il minore se non si tutela ciò di cui egli ha primariamente (se si escludono le necessità biologiche) bisogno, ossia buone relazioni con i genitori: sarebbe altrimenti come pensare che una pianta possa crescere sana e forte in mancanza della buona terra in cui affondare le proprie radici.
Il nocciolo di tale progetto è quindi la possibilità di ridefinire sul piano operativo il ruolo delle comunità, da “di tipo familiare” a “di consulenza per la famiglia”.
Ciò implica che l’obiettivo sia ricucire il tessuto relazionale lacerato se non prima di tutto tra i genitori almeno tra ognuno dei genitori e il figlio, ciò di cui questi ha fondamentalmente bisogno per continuare il suo sereno e normale sviluppo.
Il perseguimento di tale obiettivo appare affidato allo psicologo appositamente specializzato nel lavoro sul sistema familiare all’interno delle comunità, il che è avvenuto attraverso un percorso di specializzazione-formazione continua in “Consulenza Familiare di Comunità”.
Tale modello di intervento rappresenta il fulcro di tutto il progetto giacché stabilisce uno standard qualitativo improntato ai criteri di efficacia e di efficienza e ci riferiremo da questo momento in avanti allo psicologo in tal senso specializzato usando il termine “Operatore”.
L’Operatore avrà il compito di realizzare concretamente ed operativamente il passaggio dal principio “se c’è un problema in famiglia allora separa i genitori dai figli”, che sembra oggi dominante tra i giudici che si occupano di tutela del minore a quello “se c’è un problema in famiglia allora offri la cura necessaria per modificare il suo assetto disfunzionale”.
Troppo spesso dimentichiamo che il tribunale è il luogo dove, per definizione, le relazioni sono le peggiori e diventa paradossale pensare di tutelare il minore peggiorando la relazione tra i genitori, come inevitabilmente avviene con l’intervento giuridico, o separando i figli dagli stessi genitori.
L’obiezione che potrebbe è, a questo punto, che le comunità esistenti offrono già la consulenza dello psicologo e quando serve di un neuropsichiatra infantile così come dell’educatore, e che portano già avanti progetti di recupero della genitorialità.
Il punto è che oggi l’azione di queste figure appare, alla prova dei fatti, allineata con il vecchio principio di “se c’è un problema in famiglia allora separa i genitori dai figli”, dato che:
·      nelle comunità i figli sono, di fatto, separati dai genitori
·      spesso l’intervento psicologico così come quello educativo è soltanto un proforma o non rispecchiando alcun protocollo operativo predefinito o non aderendo ai criteri di efficacia e di efficienze dell’intervento o non promuovendo un effettivo riavvicinamento tra genitori e figli
·      data la natura del contratto che caratterizza l’attività delle comunità nessuno ha attualmente facoltà di effettuare un sopraluogo per verificare le reali condizioni dei minori, il che si traduce in una mancanza di controllo che espone inevitabilmente il minore a qualsiasi forma di condizione e di trattamento, che possono rivelarsi più o meno adeguate ai suoi bisogni
·      genitori e figli sono a volte privati della possibilità non solo di incontrarsi ma anche di telefonarsi e di avere una qualsiasi altra forma di contatto diretto
·      spesso la permanenza nella comunità non è a termine e non è, di fatto, finalizzata al recupero della famiglia e della genitorialità, se non prelude addirittura alla definitiva rottura del rapporto con i genitori come nel caso dell’adozione.
Se si vuole invertire questa tragica tendenza, certamente incompatibile con l’idea di un Paese civile, occorre investire in modo cospicuo sull’intervento rivolto al sistema familiare e al rapporto genitore-figlio, in grado di operare una radicale ristrutturazione delle modalità e delle finalità che caratterizzano le comunità di accoglienza minorili attualmente esistenti.
Tale figura può realizzare concretamente il principio secondo il quale “se c’è un problema in famiglia allora attua l’intervento necessario al suo riassetto”, valendosi delle seguenti condizioni.
1.    L’Operatore non dipende economicamente, e per lo svolgimento della sua attività professionale, dalla comunità giacché è retribuito da altri enti (Regioni) pur utilizzando la comunità come fondamentale strumento per realizzare i suoi obiettivi professionali volti al cambiamento migliorativo della funzionalità familiare o del rapporto genitori-figlio.
2.    L’Operatore attua un progetto a termine volto al recupero delle relazioni familiari o del rapporto genitori-figlio, progetto che prevede il lavoro con il minore e i suoi genitori e che appare, finalizzato al ripristino del più alto livello di adattamento relazionale possibile; una volta che il progetto è stato portato a termine con successo il minore assieme ai suoi genitori vengono congedati dalla comunità.
3.    L’Operatore svolge anche il ruolo di “regista” nei confronti delle altre figure professionali che operano all’interno della comunità, quali l’educatore, il neuropsichiatra infantile, il logopedista, il nutrizionista, coordinando il loro intervento a seconda delle necessità.
4.    L’Operatore caratterizza con il proprio intervento ogni comunità determinandone l’omologazione a prescindere dalle precedenti distinzioni, giacché ciò che importa è la finalità che non può che essere il ripristino delle migliori relazioni familiari o parentali possibile.
I punti di forza di tale progetto appaiono i seguenti:
·       integrazione armonica tra giurisprudenza e psicologia finalizzata alla tutela del minore
·       azione riparativa nei confronti della famiglia disfunzionale, della genitorialità, delle condizioni del minore con particolare riguardo al piano relazionale
·       trasformazione del malcontento sempre più diffuso nella popolazione dei genitori in soddisfazione nei confronti delle istituzioni che si occupano dei loro figli
·       riqualificazione delle comunità di accoglienza minorile da “comunità di tipo familiare” a “Comunità di Consulenza per la Famiglia”, il che si accompagnerebbe ad un incremento delle entrate nel momento in cui la comunità viene utilizzata per gli interventi sulla famiglia e sulla genitorialità piuttosto che esclusivamente o prevalentemente nelle situazioni estreme di grande disfunzionalità
·       riqualificazione degli psicologi che attualmente lavorano all’interno delle comunità e opportunità di impiego altri (in Italia abbiamo circa un terzo degli psicologi di tutta Europa, di cui gran parte si trovano senza impiego)
·       diminuzione drastica dei futuri costi sociali legati a questioni di salute pubblica e al disadattamento sociale, le cui basi (stando ad un’ampia letteratura scientifica) sono create dai problematiche infantili di natura relazionale
·       opportunità di ristrutturare l’intero settore sociale riguardante la tutela del minore, vista la centralità del ruolo delle comunità minorili nel panorama istituzionale globale della presa in carico del minore stesso.

Conclusioni

La comunità rappresenta oggi il punto cruciale di tutta l’attività istituzionale sociale legata ai minori, in particolare agli affidamenti, il punto in cui confluiscono gran parte degli interventi da parte dei Servizi Sociali, del Tribunale minorile, del giudice che si occupa di problematiche familiari.
Attorno alle comunità vengono ad agglomerarsi le numerose problematiche che caratterizzano una situazione ormai insostenibile, che condensa un crescente malcontento e una serie interminabile di anomalie, per non dire di atti illegittimi, da parte delle stesse istituzioni.
La soluzione che appare la più elegante è ristrutturare la funzione della comunità rendendola il luogo dove la famiglia o quel che ne rimane possono ricevere la cura necessaria al ripristino dei rapporti di cui il minore ha disperato bisogno, dato che il suo sviluppo psichico, emotivo, cognitivo di quelli si nutre.
Questa soluzione può mettere tutti d’accordo: sgrava i tribunali ordinari da un compito che non compete loro, ossia decidere come ripristinare le sorti della famiglia disfunzionale, rende superflui i tribunali minorili, solleva i Servizi Sociali da una funzione alla quale non sono preposti, rivaluta infine le comunità come luogo virtuoso con la possibilità che vedano addirittura aumentare il loro giro d’affari; in ultimo, soddisfa realmente il bisogno dei minori e delle loro famiglie.
La comunità possono, inoltre, diventare il luogo di promozione della cultura della famiglia, in cui si fa informazione, si favorisce la crescita personale sul piano della genitorialità e della bigenitorialità, si formano operatori e, in prima battuta, il luogo in cui si lavora fattivamente per risolvere le problematiche familiari, un virtuoso esempio per il resto d’Europa.

TITOLO I
Princìpi generali

Art. 1

1 – Il Minore ha diritto di crescere ed essere educato nell'ambito della propria famiglia naturale. Nessun Minore può essere allontanato dal o dai genitori naturali salvo le disposizioni della presente legge.
2 – Il diritto di cui al comma precedente è assicurato senza distinzione di sesso, di etnia, di età, di lingua, di religione, nel rispetto della identità culturale del minore e comunque non in contrasto con i princìpi fondamentali dell'ordinamento e non è sostituibile da soluzioni alternative salvo le disposizioni della presente legge.
3 – Se i genitori o i parenti fino al quarto grado sono impossibilitati a frequentare i propri figli, o volontariamente vogliono rinunciarci, per il diritto del minore a vivere nella propria famiglia il tribunale dovrà comunque trovare una soluzione idonea per ovviare a questa impossibilità attraverso la “Comunità di Consulenza per la Famiglia” (CCF).
4 – Se il minore rifiuta di incontrare uno dei genitori o un ascendente fino al quarto grado, sarà immediatamente approntato un progetto volto al recupero dei rapporti all’interno del “sistema relazionale”: con tale espressione si deve intendere sia la famiglia di origine al completo sia un solo genitore assieme al figlio. Al progetto di recupero dovranno partecipare i due genitori, se presenti, e il minore: se uno dei due genitori che non vorrà partecipare perderà almeno temporaneamente la responsabilità genitoriale.

Art. 2

1 – Sono abolite le attuali “Comunità di tipo familiare” e istituita le “Comunità di Consulenza per la Famiglia” (CCF).
2 – Le comunità che attualmente ospitano minori devono provvedere entro 12 mesi alla loro trasformazione da “Comunità di tipo familiare” in Comunità di Consulenza per la Famiglia.
3 – Il minore che ha superato l’età di 12 anni o che sia ritenuto particolarmente maturo da un Tribunale, privo di ogni riferimento familiare o genitoriale e che non intende lasciare la Comunità di Consulenza per la Famiglia dovrà comunque essere affidato ad una famiglia o ad un parente fino al quarto grado.
4 – I Comuni dovranno entro sei mesi provvedere alla selezione e all’istruzione di famiglie affidatarie. L’albo sarà permanente e il numero delle famiglie affidatarie disponibili non potrà mai scendere sotto la soglia del rapporto di 1/10.000 abitanti. Per ogni frazione numerica il numero delle famiglie va calcolato per eccesso.
5 – Le Regioni, nell'àmbito delle proprie competenze e sulla base di criteri stabiliti dalla Conferenza permanente per i rapporti tra Stato, regioni e province autonome di Trento e di Bolzano, definiscono gli standard minimi dei servizi e dell'assistenza di tipo residenziale che devono essere forniti dalle Comunità di Consulenza per la Famiglia.

Art. 3

1 – È istituito il percorso di specializzazione-formazione continua in “Consulenza Familiare di Comunità” (CFC), un protocollo di intervento basato su innovative tecniche di comunicazione e su strategie di cambiamento rapido, volte a sciogliere i nodi relazionali esistenti e a creare e mantenere buone relazioni all’interno del sistema relazionale, obiettivo funzionale alla riprese del sano e normale sviluppo del minore all’interno del sistema relazionale.
2 –I corsi sono attivare a livello nazionale e saranno gestiti da un unico “Ente di specializzazione e formazione continua” appositamente istituito al fine di garantire uno standard qualitativo operativo improntato ai più elevati criteri di efficacia e di efficienza.
3 – Gli psicologi e gli psicoterapeuti che già lavorano presso le attuali comunità e intendono continuare a prestare la loro opera presso la Comunità di Consulenza per la Famiglia. A tali professionisti che di seguito ci si riferirà con il termine “Operatori”, sono obbligati, a prescindere dalla scadenza del contratto in essere, a seguire il corso di specializzazione e formazione continua di cui al comma 1 e 2.
4 – L’Operatore non dovrà essere in uno stato di incompatibilità con la Comunità di Consulenza per la Famiglia in cui lavora. Il rappresentante della Comunità è responsabile di eventuali deroghe improprie.
5 – Il minore viene accolto dalla Comunità di Consulenza per la Famiglia nel momento in cui l’Operatore ne stabilisce la necessità in funzione del recupero del sistema relazionale originario o dell’affidamento ad un altro. Nessun altro soggetto è legittimato a decidere in tal senso.
Ciò potrà avvenire in seguito a: 1) la richiesta da parte di uno o di entrambi i genitori che si rivolgono ai Servizi Sociali; 2) in seguito all’incarico conferito dal giudice nel caso di denunce da parte di uno, di entrambi i genitori o da parte di terze persone.
6 – Le Comunità di Consulenza per la Famiglia non potranno ospitare a qualsiasi titolo minori “non accompagnati”, il che significa che il minore dovrà mantenere il contatto con il o con i genitori secondo le modalità stabilite dall’Operatore, decisione che sarà basata su: 1) la situazione che connota il sistema relazionale; 2) il progetto di recupero del sistema relazionale stabilito dall’Operatore.
7 – All’interno della Comunità di consulenza per la Famiglia l’Operatore è prima di tutto chiamato a valutare la funzione genitoriale al fine di: 1) continuare a lavorare sul sistema relazionale con il fine di ricucire il tessuto relazionale lacerato, nel caso in cui ritenga vi sia la possibilità di un sufficiente recupero del sistema relazionale; 2) procedere verso l’affidamento del minore ad una famiglia affidataria in caso contrario (come ad esempio in presenza di gravi disturbi del comportamento che si dimostrano refrattari ad ogni forma di intervento).
8 – Nel caso in cui l’Operatore valuti opportuno procedere verso l’affidamento del minore ad una famiglia affidataria e il minore si trovasse temporaneamente privo di un sistema relazionale idoneo, così come di un parente fino al quarto grado a cui essere affidato, lo stesso minore sarà affidato ad una famiglia preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola in grado di assicurargli il mantenimento, l'educazione, l'istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno.
9 – Nel caso in cui il minore fosse affidato ad una famiglia affidataria l’Operatore valuterà poi se e come è opportuno che continui ad intrattenere rapporti con il o i genitori, tenendo sempre conto del fatto che il rapporto interno con il o i genitori, quello di natura psichica, non sarà mai cancellato.
10 – I Comuni di residenza delle attuali Comunità di tipo familiare dovranno provvedere entro dodici mesi a trovare e a istruire le famiglie che avranno in affidamento e in domiciliazione i minori che non hanno genitori o i cui genitori non vogliano occuparsi di loro.
11 – L’assegnazione alle famiglie affidatarie, così come la loro idoneità dovranno essere obbligatoriamente monitorati dall’Operatore.
12 – L’Operatore in qualità di “regista” dell’intervento coordina le figure professionali che operano all’interno della Comunità di Consulenza per la Famiglia quali l’Educatore professionale, il Pedagogista e il Neuropsichiatra Infantile, decidendo di volta in volta e a seconda della necessità dettata dalla fase di attuazione del progetto di recupero del sistema relazionale, chi e come entra in campo. L’Operatore potrà coordinarsi con altre figure professionali a seconda delle necessità, come nel caso in cui intenda valersi della consulenza dello Psichiatra nei confronti dei genitori con cui lavora nel corso del progetto di recupero del sistema relazionale.

Art. 4

1 – Qualora, durante un prolungato periodo di affidamento, il minore sia dichiarato adottabile, sussistendo i requisiti e la famiglia affidataria chieda di poterlo adottare, il Tribunale per i minorenni, nel decidere sull'adozione, tiene conto dei legami affettivi significativi e del rapporto consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria.
2 – Qualora, a seguito di un periodo di affidamento, il minore faccia ritorno nella famiglia di origine o sia dato in affidamento o sia adottato da altra famiglia, è comunque tutelata se rispondente all'interesse e alla volontà del minore, la continuità delle positive relazioni socio-affettive consolidatesi durante l'affidamento. Il Tribunale farà quindi in modo che i legami affettivi vengano mantenuti se ciò si rivela conforme alla volontà e ai bisogni del minore.
3 – Il giudice, ai fini di tutte le decisioni che riguardano il minore, tiene conto, oltre che delle valutazioni documentate dell’Operatore e dei Servizi Sociali della volontà del minore che ha compiuto gli anni dodici o anche di età inferiore se capace di discernimento.

Art. 5

L’Operatore ogni sei mesi di norma e ogniqualvolta lo ritenga necessario, dovrà inviare una relazione al Tribunale competente sull’andamento del lavoro sulle singole famiglie con cui lavora in seno alla Comunità di Consulenza per la Famiglia.

TITOLO I-bis
Dell'affidamento del minore

Art. 6

1 – È abolito l’art. 403 del C.C. la cui funzione è riservata esclusivamente al Tribunale competente che immediatamente si attiverà e deciderà a seconda del caso.
Nel caso in cui venga accertata l’esistenza di un attuale pericolo per l’integrità psicofisica del minore nell’ambiente familiare in cui lo stesso vive, che renda urgente ed indifferibile il suo allontanamento, su espresso ricorso del PM e con la cooperazione dei servizi sociali territorialmente competenti, il Presidente del Tribunale provvede entro 24 ore con provvedimento motivato. Il ricorso del Pubblico Ministero deve contenere sommarie informazioni ed elementi di prova concreti e le motivazioni specifiche fondanti la richiesta della misura di protezione.
Si ritengono elementi di prova funzionali all’accertamento del suindicato pericolo, i certificati medici e/o ospedalieri congiunti a visite e sopralluoghi domiciliari le informazioni acquisite da terzi soggetti il più possibile qualificati come, a titolo esemplificativo, insegnanti, medici di famiglia, parenti e vicini di casa, questi ultimi purché dimostrino di avere stretto contatto con la famiglia. Il PM deve altresì avere verificato l’esistenza di parenti entro il quarto grado ritenuti idonei e disponibili al fine di collocare d’urgenza i minori, indicandoli espressamente nel proprio ricorso.
Il provvedimento di accoglimento del Tribunale deve essere notificato, contestualmente alla esecuzione della misura di protezione, ai genitori del minore ed a tutti i parenti entro il quarto grado del minore medesimo.
2 – Il provvedimento di accoglimento deve essere eseguito da una Unità Operativa multidisciplinare con modalità tali da limitare il più possibile traumi al minore della cui protezione si tratta ed in presenza di una psicoterapeuta infantile e, solo ove indispensabile, con l’ausilio delle Forze dell’Ordine che comunque non devono presentarsi in divisa. Il suindicato provvedimento deve contenere la prescrizione all’Operatore di attivare prontamente un progetto di sostegno alla famiglia, funzionale al reinserimento del minore presso di essa. Il provvedimento del presidente del Tribunale può essere reclamato dai genitori, dal PM, dai parenti entro il quarto grado dei minori entro 90 giorni dalla notifica dello stesso. Del reclamo è competente la Corte d’Appello Sezione minori che decide entro 90 giorni dal deposito dello stesso. Il provvedimento con cui la Corte D’Appello statuisce sul reclamo è ricorribile presso la Corte di Cassazione entro 90 giorni dalla notifica dello stesso dai medesimi soggetti legittimati a presentare reclamo”

Art. 7

1 – L’affidamento di un minore fuori della sua famiglia naturale deve ritenersi un avvenimento del tutto residuale o nei casi contemplati dall’ex 403 di cui all’Art.6, e solo se le relazioni all’interno della stessa famiglia appaiono non recuperabili.
2 – Se l'affidatario deve accogliere presso di sé il minore e provvedere al suo mantenimento e alla sua educazione e istruzione, deve tener conto comunque delle indicazioni dei genitori per i quali non vi sia stata pronuncia ai sensi degli articoli 330 e 333 del codice civile, osservando le prescrizioni stabilite dall'autorità affidante applicherà, in quanto compatibili, le disposizioni dell'articolo 316 del codice civile. In ogni caso l'affidatario esercita i poteri connessi con la responsabilità genitoriale in relazione agli ordinari rapporti con l’istituzione scolastica e con le autorità sanitarie.
3 – La famiglia affidataria deve essere convocata, a pena di nullità, nei procedimenti civili in materia di responsabilità genitoriale, di affidamento e di adottabilità relativi al minore affidato ed ha facoltà di presentare memorie scritte nell'interesse del minore.
4 – Ogni sei mesi o, se serve, in qualsiasi momento l’Operatore sono autorizzati a compiere ispezioni ed a relazionare al Tribunale competente. Tale facoltà è concessa per iscritto all’atto dell’affidamento del minore alla Comunità di Consulenza per la Famiglia.
5 – La Comunità di Consulenza per la Famiglia, tramite l’Operatore, dovrà aiutare il minore ad inserirsi nella famiglia affidataria senza forzare la sua volontà.
6 – L’Operatore valuterà, dopo un congruo periodo di lavoro con il sistema relazionale, la possibilità di recupero del sistema stesso in funzione del normale e sereno sviluppo del minore. Il periodo entro il quale tale valutazione sarà effettuata non supererà i 90 giorni lavorativi e la valutazione dovrà essere documentata e presentata al Tribunale competente.
7 – L’occasionale e temporanea impossibilità del minore a frequentare uno o entrambi i genitori sarà sempre motivo di recupero entro le tre settimane successive.
8 – Il minore, compiuti i 12 anni, privo di un sistema relazionale o che non voglia uscire dalla Comunità di Consulenza per la Famiglia che lo alloggia, deve essere ascoltato e se vuole può rimanervi e in questo caso il Comune di residenza dovrà provvedere al reperimento di una famiglia affidataria che lo segua all’interno della stessa comunità.
9 – Sono abolite le figure del Tutore, del Curatore e dell’Amministratore di Sostegno per i minori in affidamento.

Art. 8

L’accredito delle Comunità di Consulenza per la Famiglia e il lavoro che esse dovranno svolgere verrà stabilito secondo la normativa vigente.

Art. 9

1 – Per le finalità perseguite dalla presente legge è istituita entro e non oltre 180 giorni dalla data della sua entrata in vigore anche con l’apporto dei dati forniti dalle singole regioni, presso il Ministero della giustizia, una “Banca Dati delle Comunità di Consulenza per la Famiglia” (BDCCF), con indicazione di ogni informazione atta a garantire il miglior esito, l’efficienza e la trasparenza del lavoro delle comunità che seguono le famiglie. 
2 La banca dati è resa disponibile attraverso una rete di collegamento con tutte quelle Comunità di Consulenza per la Famiglia che devono garantire l’efficienza, l’informazione e il controllo del lavoro delle stesse e deve essere aggiornata ogni 5 giorni lavorativi. L’accesso a tale Banca Dati delle Comunità di Consulenza per la Famiglia si attuerà con una password dedicata alle strutture diversamente accreditate.
3 Con regolamento del Ministro della Giustizia sono disciplinate le modalità di attuazione e di organizzazione della banca dati, anche per quanto attiene all’adozione dei dispositivi necessari per la sicurezza e la riservatezza dei dati.

4 Dall’attuazione del presente articolo non debbono derivare nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato.