lunedì 30 gennaio 2017

Il rapporto tra giurisprudenza e psicologia
nella tutela del minore


    Nel momento in cui le istituzioni iniziano ad occuparsi della tutela del minore che si trova coinvolto in una situazione familiare problematica, incompatibile con l’ipotesi di un suo sereno e normale sviluppo, le tre sfere di competenza chiamate in causa sono quelle giuridica, sociale e psicologica.
     Anche se la necessità di un loro simultaneo intervento appare oltremodo evidente, a volte sembra non altrettanto evidente che: primo, tali sfere di competenza possono interfacciarsi in diversi modi, secondo, i diversi modi di interfacciarsi sortiscono necessariamente risultati diversi, terzo, è necessario che si interfaccino in modo ottimale, tale cioè da permettere – per quanto possibile – il ripristino delle condizioni favorevoli al normale e sereno sviluppo del minore stesso.
    Questo terzo punto solleva una questione che potremmo definire filosofica, se cioè è più opportuno contemplare la psicologia con gli occhi della giurisprudenza o piuttosto la giurisprudenza con gli occhi della psicologia.
   Per rispondere a tale quesito occorre prima di tutto la corretta definizione degli obiettivi istituzionali e quindi dei criteri che guidano l’intervento da parte delle istituzioni.
    Ogni processo andato a buon fine ha come presupposto la definizione di una priorità o sequenza di azioni: ad esempio nel preparare una torta si può prima mettere farina, latte e burro in forno poi impastarli, oppure procedere nel modo opposto.
    Se il criterio guida e l’obiettivo delle istituzioni sono posti – come certamente dovrebbero – al servizio dei bisogni del minore, in particolare della ripresa del suo sereno e normale sviluppo, occorre che la giurisprudenza sia vista attraverso gli occhi della psicologia e non viceversa.
    Le conoscenze teoriche e operative necessarie a realizzare tale obiettivo sono, infatti, radicate nella psicologia, nelle diverse quanto consolidate teorie sullo sviluppo infantile piuttosto che nella materia giuridica: pensare altrimenti sarebbe come usare la cartina di Milano per orientarsi a Roma o viceversa.
    Stando però ad una consolidata prassi di intervento, quando le istituzioni approcciano la famiglia problematica all’interno della quale si trova un minore che si suppone in difficoltà, le figure appartenenti alla sfera psicologica (quali psicologo, psicoterapeuta, psichiatra e neuropsichiatra infantile), sono relegate ad un ruolo valutativo, come nel caso in cui il giudice disponga la CTU in vista e in funzione del suo futuro provvedimento.
     A questo punto sono d’obbligo due considerazioni, la prima riguarda la natura dell’intervento che viene posto in atto, la seconda i tempi che tale intervento necessita per essere attuato.
   Per quanto riguarda la prima considerazione, ragionando secondo gli schemi concettuali della giurisprudenza si finisce per porsi la domanda “Che cos’è giusto?”.
   Che si tratti – almeno in questo ambito – della domanda sbagliata è dimostrato dal fatto che, di regola, i provvedimenti del giudice rappresentano interventi a gamba tesa sul rapporto tra i genitori, interventi che manifestano effetti peggiorativi nei confronti di tale rapporto: nessuno potrebbe negare che il tribunale sia, infatti, il luogo in cui le relazioni appaiono per definizione le più conflittuali.
    Ciò va inevitabilmente ad influire in modo altrettanto peggiorativo sul rapporto genitore-figlio, privilegiando solitamente un genitore e riducendo ai minimi termini il rapporto tra l’altro genitore e il figlio, in totale dispregio del principio della bigenitorialità.
   Se consideriamo che il bisogno del bambino è vivere all’interno di una famiglia in armonia, possiamo renderci conto che l’azione giuridica tout court rischia di produrre l’effetto paradosso, finendo cioè per peggiorare la condizione dello stesso minore all’interno della famiglia o perlomeno sullo sfondo del rapporto con i genitori.
    Il punto è che è proprio la relazione tra i genitori il contenitore dello sviluppo del minore: se la qualità di quel contenitore peggiora sarà lui a farne direttamente le spese.
    Tralasciando per un momento il diritto dei genitori – che nel quadro generale non risulta certo una questione di marginale importanza – per considerare ora soltanto i bisogni del figlio, il deterioramento della situazione relazionale (che può declinarsi secondo una limitata serie di possibilità) tra di loro non può che ripercuotersi in modo altrettanto deteriore sul figlio.
   Cercare di raddrizzare le cose sul piano dei rapporti interpersonali all’interno della famiglia attraverso i provvedimenti del giudice sarebbe come cercare di uscire dalle sabbie mobili dimenandosi: più lo si fa nel tentativo di uscire più si finisce, paradossalmente, per sprofondare.
    Operando un radicale cambiamento di prospettiva, ossia contemplando la giurisprudenza con gli occhi della psicologia si giunge alla conclusione che la prima dovrebbe fornire alla seconda i mezzi per intervenire sul sistema familiare al fine di risanare, in tutto o in parte, la relazione tra i genitori e quella tra i genitori e il figlio, proprio per il fatto che di questo il minore ha bisogno.
   In accordo con tale prospettiva, sostituendo alla domanda “cos’è giusto?” quella che intende indagare su “ciò che è utile” dobbiamo necessariamente giungere alla conclusione che la famiglia disfunzionale necessita di un intervento sulla comunicazione-relazione, ciò di cui ogni essere umano come animale sociale ha bisogno nel momento in cui incontra problemi nel proprio ambiente sociale, il che si rivela particolarmente vero nel caso del minore.
    Il ruolo di regista proprio della giustizia e del giudice potrebbe essere svolto indirizzando l’intero intervento istituzionale in una direzione diversa, volta alla soluzione radicale del problema familiare al fine di scongiurare il suo peggioramento (come spesso accade); nel momento in cui non si riscontrasse compliance da parte dei genitori potrebbe esservi, inoltre, una precisa prescrizione in tal senso.
    Nel caso di rifiuto a lavorare per migliorare le cose, anche se si può portare il cavallo all’acqua ma non si può costringerlo a bere, l’esperienza clinica insegna che con gli strumenti adeguati (vedi ad esempio la “comunicazione strategica”) in ogni situazione esiste un certo margine di miglioramento.
    Si tratterebbe comunque di una minoranza di casi, considerando anche il fatto che – come ultima ratio e nel caso di comportamenti che compromettono gravemente e ripetutamente l’integrità psichica e fisica del minore – si potrebbe usare la leva motivazionale costituita dall’ipotesi di provvedimenti estremi (come il temporaneo ricollocamento del minore in ambito extrafamiliare).
  Se consideriamo i problemi familiari e relazionali in genere come una particolare forma di manifestazione sintomatica (accanto a quelle psichiche e somatiche) troviamo ulteriore sostegno alla precedente ristrutturazione di prospettiva: se qualcuno si rompesse una gamba a nessuno verrebbe in mente di portarlo davanti al giudice quanto piuttosto al pronto soccorso!
   Per quanto riguarda la seconda questione precedentemente sollevata, riguardante cioè i tempi dell’intervento disposto dal giudice e dello stesso provvedimento, a volte poco importa che questi disponga l’attuazione di misure atte a ripristinare le condizioni necessarie a favorire il normale e sereno sviluppo del minore, quali il sostegno alla genitorialità, così come suggerire un eventuale percorso di psicoterapia ai genitori (qualora la CTU abbia fornito indicazioni in tal senso): il problema appare questa volta costituito dai tempi della giustizia.
    Il relegare, in prima battuta, l’intervento ad opera delle figure appartenenti all’ambito psicologico ad un ruolo puramente valutativo determina spesso un cospicuo ritardo nell’adozione di misure volte alla normalizzazione della situazione familiare a vantaggio dello stesso minore.
    Questi deve così attendere i tempi che oggi sono propri della giustizia (e i tribunali minorili non rappresentano certo eccezioni a questa regola), situazione che non tiene conto del fatto che la natura non ha previsto una pausa o una sorta di letargo evolutivo in attesa di un momento più opportuno per riprendere lo sviluppo una volta superata la situazione familiare disagevole.
    Nel guardare la situazione familiare prioritariamente con gli occhi della giustizia piuttosto che della psicologia non si prende in debita considerazione il fatto che per il soggetto in età evolutiva la dimensione tempo non ha lo stesso valore che ha per l’adulto, il che accade per diversi motivi.
   Primo, la percezione soggettiva del flusso temporale è diversa, in modo tale che lo stato di coscienza temporale in cui si trova il bambino agisce come un lente di ingrandimento focalizzata sul qui ed ora: se questo appare caratterizzato da sofferenza sarà questa ad essere amplificata.
Per un bambino, un giorno può rappresentare un lasso temporale incredibilmente lungo, specie se denso di esperienze spiacevoli, mentre per noi adulti spesso dura quanto un frullo d’ali.
   Il problema del passare del tempo in rapporto ai bisogni del bambino emerse con grande evidenza dal lavoro di ricerca compito da René Spitz e John Bowlby, due studiosi di chiara fama che nel secolo scorso furono chiamati a indagare sulle cause dell’alto tasso di mortalità e di morbilità dei bambini ospiti degli orfanatrofi e in attesa di adozione e i loro studi portarono alla scoperta delle conseguenze della mancanza di accudimento.
  In particolare Spitz parlò di “deprivazione di contatto” o “deprivazione affettiva”, le cui conseguenze sono devastanti dal punto di vista psicologico, neurologico e somatico (vedi il crollo della soglia della risposta immunitaria), in grado di produrre la sindrome chiamata “depressione anaclitica” o “marasma”, che rende più probabile il rischio di morte o di grave malattia.
   Bowlby sviluppò invece la “teoria dell’attaccamento”, che ancor oggi appare fondamentale per comprendere l’importanza che la presenza delle figure di accudimento (caregivers) ha sullo sviluppo del bambino.
   Anche se le situazioni che affliggono oggi il minore nella maggior parte dei casi di disfunzione del sistema familiare differiscono vistosamente da quelle che caratterizzarono gli orfanatrofi nei primi decessi del secolo scorso, il principio è il medesimo: il bambino ha bisogno dei genitori, di entrambi i genitori.
  Tornando per un momento alla questione precedente, se questi non si rivelano adatti per qualsivoglia motivo occorre prima di tutto cercare di recuperarne la funzione genitoriali, adottando gli opportuni quanto efficaci provvedimenti.
   Soprattutto nei casi in cui il bambino viene sottratto ai genitori o anche ad un genitore senza che sia stato fatto alcun significativo tentativo di ristabilire condizioni familiari e relazionali più favorevoli, è come se un medico decidesse di amputare un arto al paziente che lamenta dolori senza aver prima somministrato alcun farmaco o, alla peggio, senza aver compiuto alcun esame clinico per accertare le cause degli stessi dolori.
   Altra considerazione da fare per quanto concerne il tempo dal punto di vista del bambino è che l’impatto delle esperienze relazionali è diverso rispetto all’adulto, rivelandosi di valore strutturante nei confronti della personalità in divenire.
   Dobbiamo a questo proposito tener presente che nei primi tre-cinque anni di vita viene scritta quella che, in termini teatrali, possiamo chiamare la “sceneggiatura” della vita, che tenderà ad essere rappresentata e replicata fino al termine della vita con intensità tanto maggiore quanto più si rivela conflittuale e quindi fonte di sofferenza (vedi il costrutto di “coazione a ripetere” in Freud).
   I primi anni si rivelano perciò determinanti non solo per il buono o cattivo procedere dello sviluppo successivo ma anche per il resto dell’esistenza (come dimostra il lavoro clinico nell’adulto): nei casi in cui le esperienze soprattutto relazionali primarie non si rivelino favorevoli alla soddisfazione dei bisogni del bambino finiscono per costituire una sorta di coltura batterica capace di indurre, con il passare del tempo, ogni possibile forma di patologia.
  Considerando che il bambino vive in una dimensione temporale diversa da quella dell’adulto dobbiamo concludere che non ha tempo di attendere i tempi della giustizia!
   Una giustizia minorile che prescinde da tali elementari quanto fondamentali considerazioni fa davvero l’interesse del minore e se non lo fa quanto può considerarsi tale?
   È soprattutto in questo contesto che occorre operare una netta distinzione tra le buone intenzioni sottese agli interventi e gli effetti che questi effettivamente producono sul minore: come affermava Oscar Wilde, è spesso con le migliori intenzioni che si producono i peggiori risultati!
   Concludendo, nel momento in cui l’obiettivo delle istituzioni preposte alla tutela del minore è il ripristino delle condizioni favorevoli al suo sereno e normale sviluppo, occorre che la giurisprudenza sia vista attraverso gli occhi della psicologia, in particolare di quelle sue parti che si occupano dei bisogni del minore e degli strumenti atti a ripristinare un assetto relazionale funzionale a tale sviluppo.
  Occorre, a mio avviso, l’istituzione di una figura che operi in prima linea sul piano della comunicazione-relazione, utilizzando gli strumenti oggi a disposizione e messi a punto sulla base delle ricerca compiute negli ultimi decessi del secolo scorso soprattutto nel mondo anglosassone.
   Per citare solo alcuni modelli ed approcci possibili vedi la terapia sistemico-relazionale impostata da Gregory Bateson, la terapia familiare partecipativa di Salvador Minuchin e quella intergenerazionale di Murray Bowen, la terapia centrata sul cliente di Carl Rogers, la programmazione neurolinguistica di Richard Bandler e John Grinder, l’analisi transazionale di Eric Berne, la terapia breve strategica di Paul Watzlawick e Giorgio Nardone, la terapia dei nuclei profondi di Stefano Boschi.
Stefano Boschi


sabato 21 gennaio 2017

Chi deve educare i figli?
(Possibile che solamente le Istituzioni italiane non lo sappiano?)

Da: “Familiaris Consortio” [1]
Esortazione apostolica all'episcopato di Sua Santita' Giovanni Paolo II



IL DIRITTO-DOVERE EDUCATIVO DEI GENITORI

Il compito dell'educazione affonda le radici nella primordiale vocazione dei coniugi a partecipare all'opera creatrice di Dio: generando nell'amore e per amore una nuova persona, che in sé ha la vocazione alla crescita ed allo sviluppo, i genitori si assumono perciò stesso il compito di aiutarla efficacemente a vivere una vita pienamente umana. Come ha ricordato il Concilio Vaticano II: «I genitori, poiché hanno trasmesso la vita ai figli, hanno l'obbligo gravissimo di educare la prole: vanno pertanto considerati come i primi e principali educatori di essa. Questa loro funzione educativa è tanto importante che, se manca, può appena essere supplita. Tocca infatti ai genitori creare in seno alla famiglia quell'atmosfera vivificata dall'amore e dalla pietà verso Dio e verso gli uomini, che favorisce l'educazione completa dei figli in senso personale e sociale. La famiglia è dunque la prima scuola di virtù sociali di cui appunto han bisogno tutte le società» («Gravissimum Educationis», 3).

IL DIRITTO-DOVERE EDUCATIVO DEI GENITORI SI QUALIFICA COME ESSENZIALE, CONNESSO COM'È CON LA TRASMISSIONE DELLA VITA UMANA; COME ORIGINALE E PRIMARIO, RISPETTO AL COMPITO EDUCATIVO DI ALTRI, PER L'UNICITÀ DEL RAPPORTO D'AMORE CHE SUSSISTE TRA GENITORI E FIGLI; COME INSOSTITUIBILE ED INALIENABILE, E CHE PERTANTO NON PUÒ ESSERE TOTALMENTE DELEGATO AD ALTRI, NÉ DA ALTRI USURPATO.

Al di là di queste caratteristiche, non si può dimenticare che l'elemento più radicale, tale da qualificare il compito educativo dei genitori, È L'AMORE PATERNO E MATERNO, il quale trova nell'opera educativa il suo compimento nel rendere pieno e perfetto il servizio alla vita: l'amore dei genitori da sorgente diventa anima e pertanto norma, che ispira e guida tutta l'azione educativa concreta, arricchendola di quei valori di dolcezza, costanza, bontà, servizio, disinteresse, spirito di sacrificio, che sono il più prezioso frutto dell'amore.

domenica 15 gennaio 2017

La scuola in presenza di genitori separati [1]
Alcune informazioni utili


Spesso i genitori separati mi chiedono quali sono i loro dirittie i loro doveri. 
    La scuola sa come si deve comportare difronte ad alcune domande che le vengono loro rivolte quando gli alunni hanno i genitori in contenzioso giudiziale?

Ecco quindi alcune informazioni utili:

Evitare la discriminazione fra padre e madre

L’art. 316 c.c., comma 1 recita testualmente:
“Entrambi i genitori hanno la responsabilità genitoriale che è esercitata di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio”.
Dal un documento del Ministero dell’Istruzione intitolato: “Indicazioni operative per la concreta attuazione in ambito scolastico della legge 54/2006, Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”, leggiamo:
“[…] l’aspetto più rilevante della riforma è rappresentati, infatti proprio dalla centralità del minore e dall’esigenza di rispettare i suoi superiori interessi, attraverso l’introduzione del principio della bigenitorialità. […] In particolare per quanto concerne la responsabilità genitoriale e le questioni afferenti all’ambito educativo del minore l’attuale assetto normativo prevede che, di regola, entrambi i genitori hanno pari responsabilità genitoriale e che essa deve essere esercitata di comune accordo […] anche con riferimento alle decisioni relative all’educazione e all’istruzione”.

I figli di genitori non sposati

“In caso di figli nati fuori del matrimonio la responsabilità è esercitata da entrambi di comune accordo nel caso in cui il riconoscimento del figlio sia fatto da entrambi i genitori (Art. 316 c.c. comma 1 e 4). Ove invece un solo genitore riconosca il figlio, questi esercita la responsabilità genitoriale su di lui (Art. 316 comma 4). Il genitore che non esercita la responsabilità genitoriale vigila sull’istruzione, sull’educazione e sulle condizioni di vita del figlio (Art. 316 c.c. comma 5)”. [2]

Lontananza e incapacità o altro impedimento di uno dei genitori

“Nel caso di lontananza, di incapacità o di altro impedimento che renda impossibile ad uno dei genitori l’esercizio della responsabilità genitoriale, questa è esercitata in modo esclusivo dall’altro. La responsabilità genitoriale di entrambi i genitori non cessa a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio (Art. 317 c.c.). [3]

In caso di “Affidamento esclusivo” ad un solo genitore

“Il genitore cui sono affidati i figli in via esclusiva, salva diversa diposizione del giudice, ha l’esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale su di essi; egli deve attenersi alle condizioni determinate dal giudice (Art.337 – quater). Il genitore cui i figli non sono affidati ha il diritto e il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse. In ogni caso salvo che non sia diversamente stabilito, le decisioni di maggiore interesse dei figli sono comunque adottate da entrambi i genitori (Art.337- quater). Soltanto il genitore dichiarato decaduto dalla responsabilità genitoriale ai sensi dell’art.330 del c.c., a seguito di un provvedimento del tribunale, può essere considerato decaduto dalla possibilità di partecipare alle scelte di vita del figlio ivi comprese quelle relative all’educazione e all’istruzione”. [4]

L’iscrizione dei figli a scuola

Anche se l’Art. 192, comma 11, del D.lgs. n. 297 del 16 aprile 1994, non prevede che sia apposta la doppia firma sul modulo di iscrizione, così come non è prevista da alcuna modulistica ministeriale (implicando così il tacito accordo del genitore non firmatario), la scuola in caso di incertezza deve prevedere lo spazio per la doppia firma ed eventualmente scrivere sotto il modulo: “Il sottoscritto, consapevole delle conseguenze amministrative e penali per chi rilasci dichiarazioni non concernenti a verità, ai sensi del DPR 245/2000, dichiara di aver effettuato la scelta/richiesta di osservanza delle disposizioni sulla responsabilità genitoriale di cui agli artt. 316, 337 ter e quater del codice civile, che richiedono il consenso di entrambi i genitori.”

Le deleghe

La doppia firma vale anche per l’eventuale delega per il ritiro degli alunni da parte di terzi se l’affidamento è congiunto.
Non è invece possibile delegare la partecipazione ai colloqui con i docenti o la firma nelle giustificazioni, perché si tratta di aspetti diversi del dovere di educare la prole.

L’informazione sulla vita scolastica dei figli

In caso di affidamento sia congiunto sia esclusivo la scuola ha il dovere di informare entrambi i genitori sulla vita scolastica dei figli (Consiglio di Stato – Sez. VI – Sentenza n. 5825 del 13 novembre 2007 e nota del MIUR del 20 dicembre 2005), a meno che uno dei due non sia decaduto dalla responsabilità genitoriale.
Tali informazioni devono essere trasmesse ad entrambi i genitori per il loro diritto di accesso o per l’applicazione della Legge n. 241 del 7 agosto 1990 Art. 22, attraverso il registro elettronico (ormai usato da molte scuole italiane) o altri mezzi che la scuola vorrà mettere a disposizione delle famiglie.

I genitori e la loro partecipazione alla vita scolastica dei figli

La partecipazione attiva dei genitori alla vita scolastica dei figli attraverso gli organi collegiali è stata affrontata dall’Art. 7 comma 4 e 5 dell’ordinanza ministeriale n. 215 del 15 luglio 1991, [5] che così recitano:

Comma 4
“L'elettorato attivo e passivo per le elezioni dei rappresentanti dei genitori spetta, anche se i figli sono maggiorenni, ad entrambi i genitori e a coloro che ne fanno legalmente le veci, intendendosi come tali le sole persone fisiche alle quali siano attribuiti, con provvedimento dell'autorità giudiziaria, poteri tutelari, ai sensi dell'art. 348 del codice civile. Sono escluse, pertanto, le persone giuridiche, in quanto, ai sensi dell'art. 20 del decreto del Presidente della Repubblica 31 maggio 1974, n. 416, il voto e personale”.

Comma 5
“Non spetta l'elettorato attivo e passivo al genitore che ha perso la responsabilità sul minore”.

Il nulla osta da una scuola all’altra

Dal sito di AIGES (Agenzia Italiana Genitori Separati) leggiamo: [6]
“Secondo le norme pubblicistiche che disciplinano il nulla osta (regio decreto n. 653 del 4 maggio 1925) e l’azione amministrativa (legge n. 241 del 7 agosto 1990) e quelle civilistiche che disciplinano la responsabilità genitoriale (legge n. 54 dell’8 febbraio 2006), il trasferimento dell’alunno da un istituto a un altro richiede l’accordo tra i genitori, quale che sia il regime giuridico dei rapporti genitori-figli. Orientamento confermato anche dal Tribunale per i Minorenni di Ancona In caso di genitori separati”.
Il nullaosta del passaggio da una scuola a un’altra deve quindi recare la firma di entrambi i genitori o comunque quella dell’uno deve rappresentare la volontà dell’altro, pena la negazione dello stesso trasferimento.

Nota:
Nota dell'Autore: Si declina ogni responsabilità per eventuali errori e/o omissioni e/o inesattezze nonché modificazioni intervenute dopo la pubblicazione della presente, non essendo una fonte ufficiale.



[1] Per ulteriori informazioni vedere il sito internet http://www.aiges.org/blog/2014/09/scuola-vademecum-per-genitori-separati/
[2] Dal un documento del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e la Ricerca intitolato:
Indicazioni operative per la concreta attuazione in ambito scolastico della legge 54/2006 “ Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”
[3] Ibidem
[4] Dal un documento del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e la Ricerca intitolato:
Indicazioni operative per la concreta attuazione in ambito scolastico della legge 54/2006 “ Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”

giovedì 12 gennaio 2017


RectaLex

Perché c’è il concreto pericolo  che i bambini affidati finiscano in adozione



Vorrei innanzitutto premettere che io mi rivolgo principalmente alle famiglie e quindi nei miei articoli sarò volutamente il meno possibile tecnico e il più possibile pratico e comprensibile, a volte magari semplificando, se si può, ma sempre riferendomi ad articoli di legge e alla realtà dei fatti.
Ciò premesso oggi vorrei parlarvi dei bambini che finiscono in adozione..
Mi arrivano ogni giorno richieste di aiuto di genitori che non vedono più i loro figli i quali spariscono da un giorno all’altro:
sono i bambini fuori famiglia, bambini in comunità che sono stati allontanati dai genitori con un decreto del Tribunale.
Qual è in genere l’iter degli allontanamenti:
  • viene fatta un segnalazione ai Servizi Sociali.
  • questi vanno a conoscere la famiglia.
  • se ritengono che il bambino è “[……] moralmente o materialmente abbandonato o è allevato in locali insalubri o pericolosi, oppure da persone per negligenza, immoralità, ignoranza o per altri motivi incapaci di provvedere all'educazione di lui [……]”[1] il Servizio Sociale lo mette in protezione e lo allontana dalla casa coniugale urgentemente ex Art.403 collocandolo o presso un parente fino al quarto grado o presso una comunità familiare (ex art. 1,2,3,4,5 della Legge 183/1983 emendata nel 2001 dal Dlgs.149)
Poi relaziona ad un PM che fa (dovrebbe fare) un’istruttoria e relazionare a sua volta immediatamente al giudice che prenderà insieme ad altri due giudici onorari e al presidente una decisione.
Oppure:
  • il servizio sociale, se non ritiene di dover intervenire d’urgenza, per i motivi di cui sopra fa un’indagine e relaziona ancora al PM del Tribunale dei Minorenni per indagare sulla reale situazione.
  • il PM fa (dovrebbe fare), come abbiamo detto un’istruttoria e poi dando un parere relaziona ai giudici che prendono una decisione.
Questo per sommi capi.
Se il tribunale decide di non procedere in genere finisce li.
In caso contrario decide provvisoriamente di allontanare il bambino dalla famiglia e si apre un’altra istruttoria per dare la possibilità ai genitori di difendersi e riportarselo a casa.
Il bambino dunque va in affidamento..
Quale è il problema che oggi vogliamo segnalare:
LA DIFFICOLTÀ DI RIPORTARE IL BAMBINO A CASA DOPO CHE È STATO DATO IN AFFIDAMENTO SEPPUR PROVVISORIO.
Vediamo che dice la legge dopo che un minore è stato allontanato dalla famiglia:
Come abbiamo detto si svolge un’istruttoria, arrivano gli avvocati, i CTU, gli psicologi, i tutori, le ulteriori relazioni dei Servizi Sociali, gli affidatari.
Ecco cosa dice la legge:
Art. 5. della L.184/1983 em. Dlgs.149/2001
Comma 1 “L’affidatario deve accogliere presso di sé il minore e provvedere al suo mantenimento e alla sua educazione e istruzione, tenendo conto delle indicazioni dei genitori per i quali non vi sia stata pronuncia ai sensi degli articoli 330 e 333 del codice civile, o del tutore, ed osservando le prescrizioni stabilite dall’autorità affidante. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dell’articolo 316 del codice civile. In ogni caso l’affidatario esercita i poteri connessi con la potestà parentale in relazione agli ordinari rapporti con la istituzione scolastica e con le autorità sanitarie.[……]”
Comma 2. “Il servizio sociale, nell’ambito delle proprie competenze, su disposizione del giudice ovvero secondo le necessità del caso, svolge opera di sostegno educativo e psicologico, agevola i rapporti con la famiglia di provenienza ed il rientro nella stessa del minore secondo le modalità più idonee, avvalendosi anche delle competenze professionali delle altre strutture del territorio e dell’opera delle associazioni familiari eventualmente indicate dagli affidatari.”
Comma 3. “Le norme di cui ai commi 1 e 2 si applicano, in quanto compatibili, nel caso di minori ospitati presso una comunità di tipo familiare o che si trovino presso un istituto di assistenza pubblico o privato».”
Comma 4. “Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie competenze e nei limiti delle disponibilità finanziarie dei rispettivi bilanci, intervengono con misure di sostegno e di aiuto economico in favore della famiglia affidataria».”

Non intendiamo in questo caso soffermarci delle problematiche che esistono sulla realtà di come vengono espletati tuti questi passaggi avendone già parlato e di cui parleremo ancora.

Facciamo ora un passo indietro:
Noi sappiamo che l' Art.4 comma  4 scrive:
“Nel provvedimento di cui al comma 3 [2], deve inoltre essere indicato il periodo di presumibile durata dell’affidamento che deve essere rapportabile al complesso di interventi volti al recupero della famiglia d’origine. Tale periodo non può superare la durata di ventiquattro mesi ed è prorogabile, dal Tribunale per i Minorenni, qualora la sospensione dell’affidamento rechi pregiudizio al minore.”
Questo è il punto:
Semplificando diciamo che i bambini dal 2006 non possono stazionare in affidamento più di 24 mesi per cui dopo 2 anni, o tornano a casa o, dopo la sentenza definitiva del Tibunale dei Minorenni vanno in stato di adottabilità.
Cosa succede nella realtà:
Abbiamo detto che si è aperta un’istruttoria.
  • Primo Problema: ma quanto dura questa istruttoria in genere
  • Secondo Problema: quanto dura l’intero giudizio se si va in Appello e poi in Cassazione?
  • Terzo Problema: Se il bambino dopo 24 mesi non torna a casa, cosa succede intanto che la Giustizia non decide nei tre fradi di giudizio?                                                                               Il bambino, prima ancora che sia finito il contenzioso che non dura certamente 24 mesi ma anni, è  collocato presso una famiglia e i genitori maturali potrebbero non vederlo più perché quasi sempre il tribunale,dopo la senrtenza di primo grado, decide di non permettere ai genitori di avere contatti di qualsiasi tipo con i figli.                                                                                    La Legge da questa possibilità al giudice di decidere in tal senso.
Art.19

"Durante lo stato di adottabilità è sospeso l'esercizio della potestà dei genitori. Il tribunale per i minorenni nomina un tutore, ove già non esista, e adotta gli ulteriori provvedimenti nell'interesse del minore."
Tutto questo prima che sia finito il contenzioso che potrebbe durare altri anni fino alla sentenza definitiva di Cassazione.
Allora il paradosso quindi ci dice che:
Un bambino, dopo anni che non vede la famiglia, in teoria, potrebbe ritornare a casa, e il tribunale potrebbe dire che non doveva essere allontanato!?
Ovviamente questo non succede quasi mai perché a questo punto la Cassazione decide quasi sempre di allontanare per sempre il bambino dalla famiglia e  mandarlo in adozione….questo sempre nel maggiore interesse del minore!
Questa la motivazione in sintesi: “Dopo anni, come si può togliere un bambino da un ambiente in cui vive da cosi tanto tempo! Oramai la sua famiglia è quella dove vive ora!”

Ad onor del vero chiunque potrebbe contestarmi la veridicità dei fatti e potrebbe dire che quello che ho affermato non è vero e si verifica solamente in alcuni casi rari.
È vero potrebbe farlo perché io in questo momento parlo per la mia oramai esperienza decennale ed ho visto queste tragedie diventare realtà.
Allora mi chiedo: perché lo Stato non ci dice come stanno le cose?
Come ho più volte detto e non mi stancherò mai di ripetere dal 2012 non ci sono più informazioni istituzionali sui bambini posti in affidamento o in adozione!
Vorrei anche precisare che non basta sapere quanti bambini sono in affidamento o in adozione perché questo numero non mi dice niente! Per quanto si sa  in Europa siamo uno dei paesi che manda meno i bambini fuori famiglia.
E chi l’ha detto che questo sia un dato consolante! Magari non proteggiamo i minori che ne hanno bisogno e portiamo via dalle famiglie quelli che non ne hanno!
Vogliamo sapere, e credo di parlare a nome di tanti e tanti genitori, del perché hanno portato via i bambini, quanti 403 c.c. sono stati convalidati dai tribunali, quali sono le cause vere, le motivazioni di questi allontanamenti, sono sufficienti queste motivazioni per gli allontanamenti? Quanti psicologi e CTU sono in grado di intervistare correttamente i bambini, quanti genitori sono stati sottoposti al test della genitorialità e come! I test che sono stati adottati sono quelli giusti per darci risposte sufficienti? I giudici che leggono e decidono sulle relazioni delle CTU e le convalidano, essendo loro i periti dei periti, sono in grado di valutare se queste perizie sono espletate nella maniera corretta?
Tutte queste cose ed altre non ce le dice nessuno e quindi tutto può accadere e tutto ho il dubbio che accada!
Sapete perché vi dico questo oltre a basarmi sull’esperienza?
PERCHE’ IL FATTO CHE NON CI SIANO INFORMAZIONI È UN’INFORMAZIONE!
Decidete voi quale.




Nota:
Nota dell'Autore: Si declina ogni responsabilità per eventuali errori e/o omissioni e/o inesattezze nonché modificazioni intervenute dopo la pubblicazione della presente, non essendo una fonte ufficiale.



[2] “Nel provvedimento di affidamento familiare devono essere indicate specificatamente le motivazioni di esso, nonché i tempi e i modi dell’esercizio dei poteri riconosciuti all’affidatario, e le modalità attraverso le quali i genitori e gli altri componenti il nucleo familiare possono mantenere i rapporti con il minore. Deve altresì essere indicato il servizio sociale locale cui è attribuita la responsabilità del programma di assistenza, nonché la vigilanza durante l’affidamento con l’obbligo di tenere costantemente informati il giudice tutelare o il tribunale per i minorenni, a seconda che si tratti di provvedimento emesso ai sensi dei commi 1 o 2. Il servizio sociale locale cui è attribuita la responsabilità del programma di assistenza, nonché la vigilanza durante l’affidamento, deve riferire senza indugio al giudice tutelare o al tribunale per i minorenni del luogo in cui il minore si trova, a seconda che si tratti di provvedimento emesso ai sensi dei commi 1 o 2, ogni evento di particolare rilevanza ed è tenuto a presentare una relazione semestrale sull’andamento del programma di assistenza, sulla sua presumibile ulteriore durata e sull’evoluzione delle condizioni di difficoltà del nucleo familiare di provenienza.”