lunedì 13 marzo 2017


Il Servizio Sociale di fronte al rifiuto del bambino
a frequentare un genitore


Nel caso in cui ci si trovi di fronte al rifiuto del minore ad incontrare e a frequentare un genitore occorre prima di tutto rendersi conto che, a prescindere dalle cause del rifiuto, il bisogno del minore è di frequentare entrambi i genitori, bisogno che non viene annullato da tale eventuale rifiuto (ogni testo relativo ai Diritti Umani, a qualunque livello nazionale e sovranazionale, pone il diritto alla propria famiglia come prioritario e fonte essenziale di benessere!). (Vedi a tal proposito Cass. n. 50072/2016)
Per superare le fasi di difficoltà, occorre sempre intervenire tempestivamente per sanare la relazione tra il minore e il genitore cosiddetto “rifiutato”, affidando il compito ad uno psicoterapeuta esperto in terapia familiare.
Va da sé che in caso di allontanamento del minore dal genitore rifiutato, deve trattarsi di un professionista diverso da quello che ha redatto la relazione tecnica che ha indotto il giudice a disporre l’allontanamento e soprattutto da un professionista che sia gradito a tutte le parti che dovranno essere coinvolte.
Se non si segue questa prassi si rende, infatti, impossibile stabilire quel necessario rapporto di fiducia reciproca che rappresenta la conditio sine qua non di ogni forma di terapia riuscita, con adulti o con minori che sia.
Nel caso del minore la situazione può essere aggravata da un eventuale atteggiamento compiacente nei confronti dell’adulto terapeuta, differentemente da quanto accade all’adulto che, con ogni probabilità, rifiuterebbe tale sovrapposizione ritenendola inopportuna.
Sempre nell’ipotesi in cui il terapeuta in questione intendesse prendere in carico anche il genitore, inizierebbe a lavorare carico di pregiudizi nei confronti dello stesso genitore, così come quest’ultimo dovrebbe accettare di farsi aiutare dalla stessa persona che le ha cagionato problemi proprio con il bambino: tutto ciò rappresenta un chiaro esempio di paradosso.
In termini generali e in prima battuta è necessario che il terapeuta proceda con una valutazione del sistema familiare (assessment), al fine di chiarire le reali cause del rifiuto e poter intervenire in modo mirato per sanare il rapporto interrotto.
Una corretta e completa procedura di assessment prevede, quando ciò si rivela possibile, una serie di colloqui:
·         individuali, con ognuno dei genitori presenti singolarmente
·         con entrambi i genitori presenti congiuntamente (se possibile)
·         individuale con il minore (se l’età e le condizioni psicologiche lo consentono e se non ci sono altri particolari motivi per escluderlo)
·         con ognuno dei genitori e il minore contemporaneamente presenti (senza l’altro genitore)
·         con l’intero sistema familiare al completo, ossia con i genitori e il minore contemporaneamente presenti (se possibile).
Questo non viene quasi mai fatto! Arrivando al paradosso forse unico nella letteratura dell’ignoranza che vede sempre più spesso come venga attuata dagli operatori l’interruzione completa dei contatti tra il genitore alienato e il figlio/figlia!
Nel corso dei colloqui individuali il terapeuta dovrebbe raccogliere informazioni che poi confronterà con quelle raccolte nel corso dei colloqui congiunti (con entrambi i genitori e con l’intero sistema presente).
Lo scopo è prima di tutto chiarire il motivo del rifiuto e se si tratta di triangolazione.
Il terapeuta potrà quindi procedere, compliance permettendolo, a ristrutturare la funzione genitoriale dell’eventuale genitore triangolante, al fine di neutralizzare la dinamica di triangolazione.
Lavorerà anche con il genitore triangolato al fine di permettergli di superare eventuali moti di rabbia nei confronti del genitore triangolante (il che potrebbe provocare una triangolazione reattiva o di ritorno) ed eventualmente nei confronti del minore rifiutante.
Questo lavoro va svolto parallelamente a quello con il minore, al fine di permettergli di elaborare l’eventuale dinamica di triangolazione.
Nel momento in cui il genitore rifiutato ha elaborato i vissuti nei confronti soprattutto del minore, il terapeuta inizierà a lavorare con lui o lei e lo stesso minore congiuntamente, al fine di ricucire la relazione interrotta.
L’obiettivo ideale è ricucire anche la relazione tra i due genitori come coppia genitoriale, il che, fatta eccezione per i casi di estrema inadeguatezza di un genitore, andrebbe senza dubbio in direzione della soddisfazione di un indiscusso bisogno del minore.
Tutto ciò è avvalorato anche dal fatto che, come si è più volte detto, la legge dispone che la famiglia che ha accolto il bambino debba collaborare con la vecchia per farlo tornare al più presto a casa.
Sempre più spesso ci si comporta invece proprio nella maniera contraria non favorendo questa possibilità di rientro in famiglia, dando prova di totale assenza delle più elementari conoscenze psicodinamiche: quasi sempre si crede di risolvere tutto dicendo semplicemente “il bambino/a  non vuol vedere la madre o il padre!”.
E non ci vengano a dire gli operatori sociali coinvolti in simili situazioni che alcune decisioni vengono prese in “integrata” - come si usa dire spesso per giustificare una volontà discriminatoria - perché tutti -e soprattutto l’operatore predisposto al caso- deve conoscere la legge in quanto pubblico ufficiale, dovrebbe avere un minimo di cultura in materia e conoscenza dell’utenza con cui si trova a lavorare.
Per far capire quanto si sia male-interpretata la situazione dall’equipe che spesso si trova a lavorare su “casi” simili si vuole riportare una situazione – l’ennesima - in cui chi doveva eventualmente supportare ha semplicemente giudicato e male-giudicato!
Ad un incontro a quattro presso la sede del Servizio Sociale di una città del sud Italia, fu chiesto alla psicologa, se il malessere di una minore potesse avere origine diversa da quella unica su cui ci si era focalizzati fin da subito. L’avvocato cercò di confrontarsi sulla base dei documenti della bambina raccolti (diari, lettere, messaggi wattsapp e sms,) in nessuno dei quali - mai, in nessun documento! la ragazzina disse una sola parola negativa sul genitore pur consapevole che, avendolo voluto, avrebbe potuto sfogarsi sapendo che quest’ultimo non leggeva i suoi diari perché sempre scambiati per quaderni: negli scritti della bambina – sia quelli “segreti”, sia quelli condivisi con il genitore- questi si focalizza solo sul suo aspetto fisico, non si piaceva soprattutto perché si sentiva “grassa” agli occhi dei coetanei (e infatti –con la complicità degli adulti che avrebbero dovuto curarne il benessere - in pochi mesi è poi calata di molti chili, troppi).
Sulla base di queste evidenze, dunque, l’Avvocato chiese alla psicologa se la causa del malessere della bambina potesse essere individuata in questa forma di emarginazione o – come veniva letto dalla ragazzina - di “bullismo”; la reazione della psicologa a questa ipotesi fu di scherno e di ferma negazione (e qui ci si domanda quanta assoluta oggettività possono avere le teorie psicologiche!) e la risposta testualmente fu: “I ragazzi vittime di bullismo sono quelli che si tagliano, le ragazze che mostrano disturbi alimentari hanno problemi di relazione con la madre!”.
Ora, a parte l’a-scientificità di tale risposta e la superficialità della lettura data, a parte l’ingiustificata crudeltà che già di per sé denota poco equilibrio e una preoccupante mancanza di professionalità, si vorrebbe chiedere all’assistente sociale presente al colloquio e allineata alla “ridicola” teoria della psicologa come lei e la collega interpretano i dati appena condivisi al Convegno “Gli adolescenti e la paura dell’altro” dove, tra l’altro, sono stati presentati i dati di una recente indagine sugli adolescenti in Italia.
Da quanto si era detto al convegno il 36% delle ragazze di 13 anni e il 48% di quelle di 15 anni si sente “grassa” o “molto grassa” da cui si può dedurre che “la percezione del proprio corpo come “grasso” aumenta con l’età, ed è più diffusa tra le ragazze”;
·         “il 42% delle ragazze è a dieta. L’obiettivo principale è diminuire il peso corporeo”;
·         “le persone tra gli 11 e 19 anni in carico ai Servizi Sanitari per Disturbi del Comportamento alimentare (DCA) erano 219 nel 2014, circa il doppio rispetto al 2012”.
La domanda che a questo punto sorge spontanea e che si dovrebbe rivolgere all’équipe multi-professionale che si occupa del “caso” della bambina è se ritiene ancora che “le ragazze che mostrano disturbi alimentari hanno problemi di relazione con la madre”? Stando ai dati esposti al Convegno di cui sopra, infatti, sarebbe un problema davvero epocale!
O non è forse che – condizionate da preconcetti davvero deleteri in situazioni delicate come queste dove i primi a fare autocritica e ad agire con discernimento e oggettività dovrebbero essere i professionisti coinvolti - la psicologa e l’assistente sociale abbiano semplicemente “addomesticato” un’ipotesi puramente teorica alla loro interpretazione dei fatti?
Superficialità, ignoranza, discriminazione di genere? Fate voi.
Quello che sempre rimane in questi casi è la disperazione delle famiglie che sempre più spesso si vedono allontanare i figli perdendo quasi sempre ogni contatto con loro per molti mesi o addirittura anni, causando nei loro bambini danni spesso irreversibili e non solo psicologici ma addirittura fisici, come ci insegnano recenti studi metanalitici.
Forse sarebbe bene che qualcuno cominciasse a mettere in evidenza queste tragedie ancora inascoltate.