Il Servizio Sociale di fronte al rifiuto del bambino
a frequentare un genitore
Nel caso in cui ci si
trovi di fronte al rifiuto del minore ad incontrare e a frequentare un genitore
occorre prima di tutto rendersi conto che, a prescindere dalle cause del
rifiuto, il bisogno del minore è di frequentare entrambi i
genitori, bisogno che non viene annullato da tale eventuale rifiuto (ogni
testo relativo ai Diritti Umani, a qualunque livello nazionale e
sovranazionale, pone il diritto alla propria famiglia come prioritario
e fonte essenziale di benessere!). (Vedi a tal proposito Cass. n. 50072/2016)
Per superare le fasi
di difficoltà, occorre sempre intervenire tempestivamente per sanare la
relazione tra il minore e il genitore cosiddetto “rifiutato”, affidando il
compito ad uno psicoterapeuta esperto in terapia familiare.
Va da sé che in caso
di allontanamento del minore dal genitore rifiutato, deve trattarsi di un
professionista diverso da quello che ha redatto la relazione tecnica che ha
indotto il giudice a disporre l’allontanamento e soprattutto da un
professionista che sia gradito a tutte le parti che dovranno essere coinvolte.
Se non si segue
questa prassi si rende, infatti, impossibile stabilire quel necessario rapporto
di fiducia reciproca che rappresenta la conditio sine qua non di
ogni forma di terapia riuscita, con adulti o con minori che sia.
Nel caso del minore
la situazione può essere aggravata da un eventuale atteggiamento compiacente
nei confronti dell’adulto terapeuta, differentemente da quanto accade
all’adulto che, con ogni probabilità, rifiuterebbe tale sovrapposizione
ritenendola inopportuna.
Sempre nell’ipotesi
in cui il terapeuta in questione intendesse prendere in carico anche il
genitore, inizierebbe a lavorare carico di pregiudizi nei confronti dello
stesso genitore, così come quest’ultimo dovrebbe accettare di farsi
aiutare dalla stessa persona che le ha cagionato problemi proprio con il
bambino: tutto ciò rappresenta un chiaro esempio di paradosso.
In termini generali e
in prima battuta è necessario che il terapeuta proceda con una valutazione del
sistema familiare (assessment), al fine di chiarire le reali cause del
rifiuto e poter intervenire in modo mirato per sanare il rapporto interrotto.
Una corretta e
completa procedura di assessment prevede, quando ciò si rivela possibile, una
serie di colloqui:
·
individuali, con ognuno dei genitori presenti
singolarmente
·
con entrambi i genitori presenti congiuntamente (se
possibile)
·
individuale con il minore (se l’età e le condizioni
psicologiche lo consentono e se non ci sono altri particolari motivi per escluderlo)
·
con ognuno dei genitori e il minore contemporaneamente
presenti (senza l’altro genitore)
·
con l’intero sistema familiare al completo, ossia con
i genitori e il minore contemporaneamente presenti (se possibile).
Questo non viene
quasi mai fatto! Arrivando al paradosso forse unico nella
letteratura dell’ignoranza che vede sempre più spesso come venga attuata dagli
operatori l’interruzione completa dei contatti tra il genitore alienato e il
figlio/figlia!
Nel corso dei
colloqui individuali il terapeuta dovrebbe raccogliere informazioni che poi
confronterà con quelle raccolte nel corso dei colloqui congiunti (con entrambi
i genitori e con l’intero sistema presente).
Lo scopo è prima di
tutto chiarire il motivo del rifiuto e se si tratta di
triangolazione.
Il terapeuta potrà
quindi procedere, compliance permettendolo, a ristrutturare la
funzione genitoriale dell’eventuale genitore triangolante, al fine di
neutralizzare la dinamica di triangolazione.
Lavorerà anche con il
genitore triangolato al fine di permettergli di superare eventuali moti di
rabbia nei confronti del genitore triangolante (il che potrebbe provocare una
triangolazione reattiva o di ritorno) ed eventualmente nei confronti del minore
rifiutante.
Questo lavoro va
svolto parallelamente a quello con il minore, al fine di permettergli di
elaborare l’eventuale dinamica di triangolazione.
Nel momento in cui il
genitore rifiutato ha elaborato i vissuti nei confronti soprattutto del minore,
il terapeuta inizierà a lavorare con lui o lei e lo stesso minore congiuntamente,
al fine di ricucire la relazione interrotta.
L’obiettivo ideale è
ricucire anche la relazione tra i due genitori come coppia genitoriale, il che,
fatta eccezione per i casi di estrema inadeguatezza di un genitore, andrebbe
senza dubbio in direzione della soddisfazione di un indiscusso bisogno del
minore.
Tutto ciò è
avvalorato anche dal fatto che, come si è più volte detto, la legge dispone che
la famiglia che ha accolto il bambino debba collaborare con la vecchia per
farlo tornare al più presto a casa.
Sempre più spesso ci
si comporta invece proprio nella maniera contraria non favorendo questa
possibilità di rientro in famiglia, dando prova di totale assenza delle più
elementari conoscenze psicodinamiche: quasi sempre si crede di risolvere tutto
dicendo semplicemente “il bambino/a non vuol vedere la madre o il
padre!”.
E non ci vengano a
dire gli operatori sociali coinvolti in simili situazioni che alcune decisioni
vengono prese in “integrata” - come si usa dire spesso per giustificare una
volontà discriminatoria - perché tutti -e soprattutto l’operatore predisposto
al caso- deve conoscere la legge in quanto pubblico ufficiale, dovrebbe avere
un minimo di cultura in materia e conoscenza dell’utenza con cui si trova a lavorare.
Per far capire quanto
si sia male-interpretata la situazione dall’equipe che spesso si trova a
lavorare su “casi” simili si vuole riportare una situazione – l’ennesima - in
cui chi doveva eventualmente supportare ha semplicemente giudicato e
male-giudicato!
Ad un incontro a
quattro presso la sede del Servizio Sociale di una città del sud Italia, fu
chiesto alla psicologa, se il malessere di una minore potesse avere origine
diversa da quella unica su cui ci si era focalizzati fin da subito. L’avvocato
cercò di confrontarsi sulla base dei documenti della bambina raccolti (diari,
lettere, messaggi wattsapp e sms,) in nessuno dei quali - mai, in nessun
documento! la ragazzina disse una sola parola negativa sul genitore pur
consapevole che, avendolo voluto, avrebbe potuto sfogarsi sapendo che
quest’ultimo non leggeva i suoi diari perché sempre scambiati per quaderni:
negli scritti della bambina – sia quelli “segreti”, sia quelli condivisi con il
genitore- questi si focalizza solo sul suo aspetto fisico, non si piaceva
soprattutto perché si sentiva “grassa” agli occhi dei coetanei (e infatti –con
la complicità degli adulti che avrebbero dovuto curarne il benessere - in pochi
mesi è poi calata di molti chili, troppi).
Sulla base di queste
evidenze, dunque, l’Avvocato chiese alla psicologa se la causa del malessere
della bambina potesse essere individuata in questa forma di emarginazione o –
come veniva letto dalla ragazzina - di “bullismo”; la reazione della psicologa
a questa ipotesi fu di scherno e di ferma negazione (e qui ci si domanda quanta
assoluta oggettività possono avere le teorie psicologiche!) e la risposta
testualmente fu: “I ragazzi vittime di bullismo sono quelli che si
tagliano, le ragazze che mostrano disturbi alimentari hanno problemi di
relazione con la madre!”.
Ora, a parte
l’a-scientificità di tale risposta e la superficialità della lettura data, a
parte l’ingiustificata crudeltà che già di per sé denota poco equilibrio e una
preoccupante mancanza di professionalità, si vorrebbe chiedere all’assistente
sociale presente al colloquio e allineata alla “ridicola” teoria della
psicologa come lei e la collega interpretano i dati appena condivisi al
Convegno “Gli adolescenti e la paura dell’altro” dove, tra l’altro, sono stati
presentati i dati di una recente indagine sugli adolescenti in Italia.
Da quanto si era
detto al convegno il 36% delle ragazze di 13 anni e il 48% di quelle di 15 anni
si sente “grassa” o “molto grassa” da cui si può dedurre che “la percezione del
proprio corpo come “grasso” aumenta con l’età, ed è più diffusa tra le
ragazze”;
·
“il 42% delle ragazze è a dieta. L’obiettivo
principale è diminuire il peso corporeo”;
·
“le persone tra gli 11 e 19 anni in carico ai Servizi
Sanitari per Disturbi del Comportamento alimentare (DCA) erano 219 nel 2014,
circa il doppio rispetto al 2012”.
La domanda che a
questo punto sorge spontanea e che si dovrebbe rivolgere all’équipe
multi-professionale che si occupa del “caso” della bambina è se ritiene ancora
che “le ragazze che mostrano disturbi alimentari hanno problemi di relazione
con la madre”? Stando ai dati esposti al Convegno di cui sopra,
infatti, sarebbe un problema davvero epocale!
O non è forse che –
condizionate da preconcetti davvero deleteri in situazioni delicate come queste
dove i primi a fare autocritica e ad agire con discernimento e oggettività
dovrebbero essere i professionisti coinvolti - la psicologa e l’assistente
sociale abbiano semplicemente “addomesticato” un’ipotesi puramente teorica alla
loro interpretazione dei fatti?
Superficialità,
ignoranza, discriminazione di genere? Fate voi.
Quello che sempre
rimane in questi casi è la disperazione delle famiglie che sempre più spesso si
vedono allontanare i figli perdendo quasi sempre ogni contatto con loro per
molti mesi o addirittura anni, causando nei loro bambini danni spesso
irreversibili e non solo psicologici ma addirittura fisici, come ci insegnano
recenti studi metanalitici.
Forse sarebbe bene
che qualcuno cominciasse a mettere in evidenza queste tragedie ancora
inascoltate.