martedì 21 febbraio 2017


L'alienazione parentale e la violenza istituzionale






UNA QUESTIONE TERMINOLOGICA

Va dato per scontato che l’alienazione parentale esiste (eccome!) con buona pace dei suoi detrattori -che evidentemente non l’hanno sperimentata sulla loro pelle - e con la benedizione del DSM-V - [1] che non la considera un disturbo a se stante dell’individuo ma una patologia relazionale da considerare seriamente a livello clinico poiché influenza in modo significativo la salute personale e, di conseguenza, la diagnosi, il decorso, la prognosi o il trattamento di un problema mentale o medico; l’alienazione parentale è in particolare una difficoltà di rapporti genitore-figlio che può manifestarsi con una compromissione del funzionamento cognitivo-comportamentale (si possono infatti riscontrare attribuzioni negative alle intenzioni altrui, ostilità verso gli altri trasformati in incolpevoli capri espiatori e sentimenti non giustificati di alienazione) o affettivo (con conseguenze quali sensazioni di tristezza, apatia o rabbia verso gli individui con cui ci si relaziona).
Credo sia meglio precisare il significato del verbo “alienare” ovvero “rendere qualcuno [ndr. un figlio] estraneo, ostile ad altri; far perdere a qualcuno [ndr. un genitore] l’altrui benevolenza, allontanare” (cit.); questo verbo è tanto più crudo e terribile se si pensa appunto che si ha a che fare con madri, padri, figli, ecc. Al corrispondente sostantivo “alienazione”, poi, preferisco aggiungere l’aggettivo “parentale” perché chi si allontana - incolpevole - e si trasforma in un nemico non è solo l’"altro" genitore, ma si induce un’ostilità ingiustificata e feroce anche nei confronti di tutta la sua famiglia e, ancora più in modo allargato, di tutto il suo contesto amicale: queste tragedie, quindi, coinvolgono e travolgono anche nonni, zii, amici, ecc. La storia, infatti, dopo mesi di vergogna (???), di silenzio, di isolamento e solitudine autoimposta (perché lo stigma sociale è in agguato, c’è il bisogno -sbigottiti- di interrogarsi ed è inevitabile trovarsi ad analizzare i propri comportamenti nel tentativo di trovare un motivo - che non c’è-all’accaduto)  porta a conoscere tante altre storie e a confrontarsi con lo strazio che dal genitore incolpevolmente alienato, si propaga a tutti quanti gli stanno attorno.
Alienazione parentale, quindi. Non vogliamo chiamarla così? Possiamo allora definire questo fenomeno terribile come manipolazione o plagio ma siccome la sostanza non cambia, tanto vale chiamarla con il suo nome e imparare a riconoscerla e ad accettarne l’esistenza. Solo così - forse - si potrà iniziare ad affrontarla e a eliminarla. Certo è che ci vuole convinzione, sensibilità, determinazione ma… soprattutto onestà intellettuale e professionale.

LA DINAMICA PERVERSA  

In questo assurdo “gioco delle parti” le carte sono sempre distribuite in modo monotonamente identico, rispettando un copione uguale a se stesso, crudelmente superficiale e colpevolmente miope. I comportamenti di chi si trova a “lavorare” su queste situazioni paiono ispirarsi in ogni caso alla difesa del “più forte”, al percorso più breve e più semplice, alla costante negazione del diritto alla bigenitorialità fissata dalla Legge 54 del 2006 e, in definitiva, al supporto fattivo all’alienazione.
Da una parte c’è l’adulto alienante che incredibilmente viene sempre tutelato, difeso e sostenuto dal
un sistema sociale e giuridico ottuso - se non cieco -, garantista - se non connivente -: spesso, nonostante tutte le evidenze, le sentenze, le valutazioni psicologiche e di competenza genitoriale avverse si consente che chi aliena un figlio all’altro genitore continui a farlo con la benedizione istituzionale.
Dall’altra parte c’è il dito puntato, ci sono le denigrazioni, le calunnie, le critiche rivolte al genitore alienato: normalmente le accuse non sono supportate da alcuna valida motivazione, da nessuna prova oggettiva, dall’assenza assoluta di cause consistenti; spesso si tratta di vere e proprie persecuzioni attuate da non-genitori che non possono ovviamente immedesimarsi nelle situazioni che si arrogano il diritto di giudicare e da personaggi che non hanno alcuna adeguata competenza, frequentemente neppure legittimati a decidere della vita altrui. Costoro strappano un legame affettivo primario come quello tra un padre/una madre e i suoi figli e lo fanno con una superficialità indegna, si incaponiscono nelle loro decisioni, ricercano a tutti i costi ragioni per giustificare le misure che ormai hanno attivato autoalimentando con giudizi, preconcetti e sentenze sommarie lo status quo che insistono a protrarre nel tempo demolendo sistematicamente il genitore-bersaglio: dopo la relazione affettiva vitale tra un papà/una mamma e i suoi figli, ne distruggono la serenità, la quotidianità, l’autostima, l’immagine sociale, la voglia di vivere e la forza di lottare. Si arriva ad augurarsi di morire. Si arriva a tentare il suicidio. E per questo si viene - in un gioco perverso basato sulla continua colpevolizzazione, dove ogni comportamento - persino i gesti d’affetto verso un figlio sono giudicati “troppo affettuosi”! - viene rivolto contro il genitore alienato, considerato inadeguato e verbalizzato come negativo. Il genitore alienato è sottoposto ad una continua violenza che viene autoalimentata perché non si sfugga alla spirale dell’alienazione che - una volta attivata- avviluppa e non si interrompe… non si vuole interrompere: non c’è la volontà, manca l’interesse e la forza di riconoscere l’errore commesso che, magari iniziato come uno sbaglio, un errore a cui si potrebbe/dovrebbe porre immediato rimedio, si incancrenisce in un maltrattamento subdolo e feroce, protratto e insopportabile.
Un genitore maltrattato, meglio, violentato… questo termine è scelto in modo ponderato.

UNA VIOLENZA MULTICOMPONENZIALE

Va detto che il fenomeno dell’alienazione avviene sempre - e purtroppo sempre più frequentemente, quasi sistematicamente - in contesti separativi e, in particolare, durante separazioni conflittuali. Non posso non ricordare un dato raccolto ad un recente convegno in tema (sic!) di tutela dei minori: un’avvocata del Centro Donna Giustizia di Ferrara portava all’attenzione il costante ricatto subito da ogni donna (ma immagino anche dai padri) che tenta di divincolarsi dal giogo di un compagno/a violento/a o comunque prevaricatore/trice; al momento della rottura della relazione scatta sempre il ricatto osceno che recita immancabilmente: ”Se mi lasci/se mi porterai in tribunale ti porterò via i figli!”.
L’alienazione è esattamente l’avverarsi di questa minaccia e si basa su due azioni:
1-                 Sul figlio/sui figli manipolati più o meno gradualmente, plagiati per immaturità, per un bisogno di affetto che si fa adesione acritica al genitore “forte”, per scelta esclusiva, spesso inconsapevole, spesso opportunistica (soprattutto in età adolescenziale): questi bambini/ragazzi sono usati da adulti incapaci di empatia e inadeguati come genitori se non altro per la crudeltà perpetrata sui loro figli;
2-                 Sul coniuge (o ex) che, per rendere più efficace la loro azione alienante, viene denunciato per atti immondi: violenze psicologiche devastanti,maltrattamenti fisici (senza segno alcuno), abusi sessuali e chi più ne ha, più ne metta.
Queste situazioni, quindi, dilaniano il genitore-bersaglio che passa dalla disperazione, al dolore lancinante, dallo strazio stupefatto, alla vergogna ingiustificata, dal bisogno di capire, alla rabbia sorda, dalla depressione che arriva fino alla voglia di morire, alla sensazione di totale impotenza e frustrazione e… potrei continuare; ma queste stesse situazioni nello stesso momento danneggiano irreparabilmente i figli che passeranno dall’odio verso il genitore alienato e dal senso di onnipotenza (spesso colpevolmente sostenuta, o addirittura indotta, da figure professionali ignobili, indegne di trattare persino carne macellata!), per passare - quando va bene e arriva, se arriva, la capacità di autoriflessione - a terribili sensi di colpa, alle conseguenze di un irreparabili conseguenze psicologiche, a danni biologici (esistono studi specifici incontrovertibili sull’argomento) e ad un rischio altissimo di suicidio.
Chi mette in atto questi comportamenti, oltre a non rispettare il compagno/l’ex-compagno, dimostra di non amare i propri figli che usa come frecce al suo arco: adoperare strumentalmente un figlio significa non-amarlo, sfruttare le debolezze di un figlio significa non-amarlo.

UN’ALTRA FORMA DI VIOLENZA ENDOFAMILIARE [2]

L’alienazione parentale andrebbe inserita a pieno titolo nell’elenco delle forme di violenza domestica.
Il problema a questo punto è conoscere, comprendere e pretendere che nei tribunali si tenga in considerazione la definizione ancora purtroppo solo teorica (il classico bla bla bla!) di violenza familiare: i giudici spesso (ma spesso anche gli avvocati, le forze dell’ordine e giù a scendere nella scala dell’inconsapevolezza che comunque - è bene sapere - ignorantia non excusat!), anzi quando va bene, si degnano di analizzare solo le situazioni in cui la violenza è fisica, conclamata, diagnosticata e possibilmente evidente, grave, meglio se gravissima.
Sbagliano!
Secondo tutte le definizioni nazionali e internazionali la violenza in famiglia può essere verbale, psicologica, economica, sessuale e anche - ma non solo - fisica[3]: non c’è una forma più grave e una meno grave, sono tutte ignobili; tutte queste forme non hanno genere (anche se qualcuna è più “femminile” e qualche altra è più “maschile”); spesso sono associate le une alle altre. Chi c’è passato sa che se compaiono poi non scompaiono, persistono, ritornano e possono solo aggravarsi; chi c’è passato sa che non si dimenticano, che scavano solchi e rovinano quella parte di vita che ti resta.
In Italia poi c’è il paradosso che se tali violenze sono commesse in presenza (e ciò significa in forma diretta, visivamente, ma anche indiretta, sentendo o vedendone successivamente le conseguenze) dei figli, viene riconosciuta al massimo un’aggravante: non si considera questa un’ulteriore violenza, distinta e - se possibile - ancora più odiosa perché commessa su minori. La “violenza assistita” è un reato gravissimo ma in Italia è ridicolizzato perché se è normalmente già è cosa rara che si arrivi a condannare adeguatamente atti di violenza fisica con segni incontrovertibili… figuriamoci se si fa caso alle forme meno evidenti (ma spesso persino più devastanti) di violenza; arrivare a pensare di punire la violenza assistita, poi, è fantascienza anche se così facendo si arriva a compiere un’infinita serie di violenze sui figli: oltre ad essere presenti e subire le umiliazioni e i maltrattamenti agiti sulle loro madri/sui loro padri, sono poi ostaggi inconsapevoli del genitore che li usa come armi contro l’altro. Vittime i figli, vittime i genitori alienati con il beneplacito di parenti, servizi sociali, psicologi, giudici, CTU, CTP, ecc. in una lunga sequela di denunce, valutazioni, colloqui, interrogatori, incontri protetti, ecc.

UN INCUBO INASCOLTATO

Detto questo chi entra nel tunnel dell’alienazione parentale può invocare per anni ascolto, attenzione, considerazione e giustizia: vanamente.
Non l’avrà!
Non ci può essere giustizia neppure quando si ottiene il riconoscimento dell’alienazione perché comunque saranno passati anni - un tempo dilatato e inconciliabile con l’affetto di un genitore che ha bisogno di vivere con i suoi figli, per i suoi figli perché la sua vita abbia un senso!-: in quegli anni le persone cambiano e possono fare fatica a riconoscersi, in quegli anni i figli crescono e un giudice può arrivare a bestemmiare che quel ragazzino può decidere di rifiutare suo padre/sua madre pure innocente (proprio perché quel figlio è tautologicamente alienato!), in quegli anni si può giungere a ritenere che l’interesse del minore sia quello di continuare ad essere orfano di un genitore vivo (e innocente), in quegli anni chi dovrebbe amministrare la legge può dimenticare che un minore ha il diritto di crescere nella sua famiglia (comunque essa sia composta e, a maggior ragione, con il genitore alienato a cui già tanto è stato rubato!), in quegli anni i servizi sociali e i tribunali (“la legge è uguale per tutti”???) possono negare ciò che tutte le dichiarazioni dei diritti umani, a qualsiasi livello -, affermano, in quegli anni si può raschiare il fondo dichiarando adottabili figli che i genitori li hanno.
Ma che sistema è? Che società è? Che gente è?
Si teorizza (bene) che il fattore-tempo in situazioni di alienazione è fondamentale, la rapidità di intervento e riparazione è indispensabile; si teorizza (bene) che il recupero di un figlio alienato passa prima di tutto dall’allontanamento dal contesto alienante, va sottratto dalle spire avviluppanti e mortifere di chi lo ha sfruttato usandolo come arma ricattatoria e punitiva contro il coniuge/l’ex coniuge che - incidentalmente - è anche il genitore di quel figlio.
Tutto bene, allora?
No.
La teoria cozza contro la realtà che contraddice sistematicamente i buoni propositi, i principi, le regole di buon senso: così capita che gli stessi che teorizzano (bene), razzolano però male, malissimo… facendo una ben misera figura.
Invece di mettere in pratica la teoria aprendo strade virtuose ma forse faticose (solo per il fatto di essere nuove), è più facile credere alle false accuse dell’alienante che per definizione avrà dalla sua figli alienati e un intero sistema insensibile, sonnolento, più disposto ad accogliere “la pappa pronta” condita di frasi assurde e fatti incredibili, denunce, episodi fantascientifici, ritrattazioni improvvise, cambi di opinione, negazioni dell’evidenza, vuoti di memoria: tutto piuttosto che fare la fatica di voler capire davvero i fatti, di ragionare sulle concatenazioni causa-effetto, di aiutare e proteggere chi è davvero vittima. Ancora una volta, nel fare queste considerazioni, non mi riferisco solo al genitore alienato, ma anche ai figli considerati alla stregua di instrumenta vocalia, veri “schiavi” abbruttiti, usati contro l’altro genitore che ha osato ribellarsi (magari denunciando le violenze familiari a cui era sottoposto!).

 Prof.ssa Rita Rondinelli




[1]http://www.alienazione.genitoriale.com/i-sentimenti-non-giustificati-di-alienazione-nel-dsm5/Le condizioni e i problemi elencati in questo capitolo non sono disturbi mentali. La loro inclusione nel DSM-5 ha lo scopo di attirare l’attenzione sulla portata di ulteriori questioni che si possono incontrare nella pratica clinica di routine e di fornire un elenco sistematico che può essere utile ai clinici nel documentare tali questioni.
http://www.valueoptions.com/providers/Handbook/PDFs/Treatment_Guidelines/V_CODES_RELATIONAL_PROBLEMS.pdf: anche nel manuale della ValueOptions (istituzione accreditata dal sistema sanitario USA) si classifica l’alienazione parentale riportandola tra i Parent/Child Relational Problems (riprendendo l’ICD.9: V.61.20) comeUnresolved parental conflict (i.e.: the constant devaluing of one parent by the other) in divorced or estranged families resulting in parental alienation syndrome”.
[2]Ritrovo inaspettatamente tra i documenti salvati sul mio pc l’intervento di una docente del master Unife in tutela dei minori, la Prof.ssa Miola che per la giornata contro la violenza sulle donne postava sul forum:
“In continuità con quanto scritto dalla prof.ssa Bastianoni vorremmo condividere con voi alcune considerazioni e riflessioni sull’importanza del riconoscimento precoce dei segnali di una subita violenza e su come l’intervento di aiuto debba essere competente, attento, accogliente e tempestivo,  volto a garantire sicurezza e a “favorire una cicatrizzazione” delle ferite nel corpo e nella mente che la violenza crea, in chi la subisce e in chi vi assiste. Secondo i dati Istat il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito nella vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale (praticamente una donna su tre!). Nelle vittime il danno è tanto maggiore quanto più è stretto il legame con l’aggressore, tanto più se il legame è familiare. Negli ultimi anni è aumentata la percentuale di minori che hanno assistito  ad episodi di violenza sulla propria madre (si è passati dal 60,3% del 2006 al 65,2% del 2014). Si tratta in questi casi di violenza assistita intrafamiliare , termine con cui si intende l’esperire da parte del bambino qualsiasi forma di maltrattamento su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative, adulte o minori. Il bambino può farne esperienza direttamente (quando essa avviene nel suo campo percettivo), indirettamente (quando il minore è a conoscenza della violenza), e/o percependone gli effetti. Quando una donna è maltrattata la condizione traumatica che subisce inficia anche la sua funzione genitoriale, fin dalla fase prenatale, con una ricaduta sul funzionamento di tutto il sistema famigliare. I figli di qualsiasi età che sono testimoni, diretti o indiretti, della violenza agita sulla loro figura di attaccamento, sono essi stessi vittime e subiscono importanti conseguenze a
breve, medio e lungo termine sullo stato di salute psicofisica. L’assistere alla violenza domestica da parte dei bambini rappresenta infatti un potente attivatore delle funzioni dei neuroni specchio (il bambino vedendo la madre che prova dolore prova lo stesso dolore) creando le precondizioni per maggiori probabilità di sviluppare anche malattie organiche. La teoria dell' attaccamento ci offre una chiave di lettura della natura  traumatica del danno conseguente al maltrattamento, soprattutto in ambito familiare, partendo dalla concezione del funzionamento psichico in termini dei sistemi motivazionali primari, che hanno come scopo la sopravvivenza. L’aggressione fisica e/o psichica, ancor più quando perpetrata da una figura di attaccamento, genera un paradosso o un conflitto insolubile perchè si attivano in contemporanea il sistema di attaccamento (che ha come scopo il garantire la prossimità fisica di una figura in grado di fornire protezione, aiuto e vicinanza affettiva, andando a costituire una condizione di sicurezza per il soggetto) e il sistema di  difesa (che si attiva quando il soggetto si trova di fronte ad un vissuto di pericolo per la propria incolumità), che sono tra loro incompatibili. Questa attivazione paradossale è paralizzante, produce un effetto dissociativo, che può esitare nella messa in atto da parte della vittima di meccanismi di difesa disfunzionali quali somatizzazione,  congelamento,  negazione e rimozione  e meccanismi di identificazione con la vittima o il carnefice. Tutto ciò indica l’obbligo da parte di tutti gli operatori della salute di rilevare e riconoscere subito, ogni qualvolta la donna accede in Pronto Soccorso in seguito ad una subita aggressione, spesso anche non esplicitata, o alterata e mascherata (Nadia dichiara al  triage di “essere caduta su un sasso con 32 punte”!!) in primis i segni e i danni sia diretti che indiretti subiti dal corpo e contestualmente i sintomi indicatori dei vissuti psicologici di paura, ansia, vergogna, colpa, rabbia e di autosvalutazione. Il processo di pronta accoglienza e il riconoscimento del dolore diventano per la donna l'incipit di un percorso di fuoriuscita dal tunnel della violenza verso la guarigione per sé e per tutta la sua famiglia, per i figli in primis.”
Annalisa Nichele